Sulla nomina del vescovo di Trivento

di Umberto Berardo
In merito alla vicenda della nomina del nuovo vescovo della diocesi di Trivento ho cercato di esprimere al momento opportuno il mio pensiero che ho portato sui media ma anche nel tentato confronto di base dentro una Chiesa che ha continuato purtroppo a negarlo. Quando un nutrito gruppo di laici ha provato ad avviare nel dicembre 2024 una discussione tra tutte le componenti della Chiesa locale per cercare da credenti impegnati di riflettere con spirito di servizio sul futuro della diocesi è stato dissuaso da ben due comunicazioni della Curia che negava perfino l’utilizzo delle sedi ecclesiastiche per gli incontri, prendeva le distanze dall’iniziativa e si dissociava apertamente da essa. Le idee di una lettera a papa Francesco firmata da molte centinaia di fedeli e di una fiaccolata per sollecitare la nomina di un nuovo pastore sono state viste non come un contributo di riflessione per la difesa dell’autonomia di una diocesi plurisecolare e per la conservazione di un vescovo proprio come punto di riferimento di una popolazione già alle prese con mille difficoltà di ordine economico, sociale, culturale e politico, ma come una sorta di azione impropria e indesiderata. Ciò che da cristiani si chiedeva allora e si chiede ancora oggi è che eventuali decisioni sulla riorganizzazione della suddivisione amministrativa e pastorale della Chiesa si facciano con un provvedimento di ristrutturazione complessiva su tutto il territorio nazionale sentendo però le esigenze del popolo di Dio e confrontandosi con presbiteri e laici per evitare soprattutto di accorpare magari più periferie già con problemi esistenziali come è avvenuto ora da noi.
Domenica 23 febbraio 2025 in tarda serata è stata diffusa la seguente comunicazione a firma del vicario fatta pervenire non attraverso il sito della diocesi ma via social network: “Si porta a conoscenza che tutto il clero, i religiosi, le religiose e il popolo santo di Dio sono CONVOCATI per domani 24 febbraio 2025 nella Cattedrale di Trivento alle ore 11, 45 per importanti comunicazioni. Si prega di non mancare.” Quanti erano accorsi in cattedrale manifestavano ancora fiducia nella soluzione sempre auspicata di avere un vescovo proprio e invece l’avviso convocava clero e laici per annunciare la nomina di mons. Camillo Cibotti a Vescovo di Trivento con l’accorpamento della diocesi a quella di Isernia- Venafro. Nell’incontro in cattedrale si è dichiarato che non è accaduto quanto molti supponevano pensando appunto a uno smembramento o a un accorpamento, ma che la nostra diocesi ha avuto il suo vescovo mantenendo la sua pienezza e la sua integrità giuridica. Anzitutto vorrei far notare che già alcuni fedeli, in grande prevalenza donne, all’uscita dalla cattedrale dopo la comunicazione della nomina hanno dimostrato di comprendere chiaramente la differenza tra un’autonomia puramente formale e una al contrario sostanziale che sola può garantire identità, cultura, tradizioni e soprattutto servizi pastorali e spirituali efficienti. Si possono anche scegliere sottigliezze lessicali nella definizione di un assetto di riorganizzazione amministrativa, ma non è affatto difficile comprendere che siamo davanti proprio all’accorpamento della diocesi di Trivento a quella di Isernia-Venafro con un solo vescovo che risiederà presumibilmente a Isernia. Se la nostra e quella di Isernia-Venafro al contrario fossero unite nel nuovo pastore in “persona episcopi”, come si scrive, mantenendo rispettivamente il loro stato giuridico, mi chiedo molto semplicemente perché il nuovo pastore per dare perfetta parità alle due Curie e avere una migliore cura e guida spirituale e pastorale delle due diocesi, visto che dovrà occuparsi di ben 58 parrocchie di Trivento e 48 di Isernia-Venafro disseminate su 1974 chilometri quadrati, non possa e debba risiedere in periodi alternati in entrambe le due sedi episcopali coadiuvato da due vicari efficienti. Se si sceglie di risiedere solo a Isernia perché sede più prestigiosa, come d’altronde avviene abitualmente altrove, è chiaro che non si prendono decisioni che guardano alla funzionalità del coordinamento pastorale e non si rispetta quella che a parole si definisce ancora la piena autonomia di entrambe le diocesi. Naturalmente tale problema si pone per tutte le sedi vescovili accorpate in Italia, ma in particolare in quelle che insistono come da noi su territori dove i collegamenti sono più problematici. Domando inoltre se la trasparenza nel rapporto con il popolo di Dio non abbia la necessità di prevedere anche un’estrema chiarezza sulla definitività dell’accorpamento delle due diocesi evitando di continuare a ingenerare preoccupazione o aspettative sul futuro. Proprio perché sappiamo che tale sistema di razionalizzazione è quello ormai scelto per la riduzione del numero delle diocesi, penso che una tale trasparenza non è semplicemente utile, ma assolutamente doverosa. Di sicuro c’è tanta amarezza in quanti hanno sperato in una piena autonomia di una diocesi che, oltre a una storia millenaria, ha anche una piena vitalità pastorale e spirituale. Non è la prima volta che si deve difendere l’autonomia della diocesi di Trivento da operazioni verticistiche come nel suo ridimensionamento con lo spostamento delle sue parrocchie di Castel di Sangro e di Alfedena alla diocesi di Sulmona nel 1977 e con il suo accorpamento sempre a Isernia- Venafro con il vescovo Palmerini nel 1970. Mi sono sforzato con umiltà e tuttavia con determinazione d’invitare apertamente a riflettere sui gravi danni che le scelte di razionalizzazione indiscriminata delle diocesi possono arrecare a territori che stanno rischiando già l’abbandono e la desertificazione culturale, economica, sociale e anche spirituale. Sta venendo meno in questa direzione il timore iniziale di molti vescovi d’impoverire ulteriormente piccoli territori dell’entroterra della Penisola che vedono man mano ridursi tanti altri presidi relativi ai servizi e ora anche questo ecclesiale. Se perfino nella Chiesa prevalgono le logiche delle decisioni verticistiche eliminando il dialogo con il popolo di Dio, chiamato solo ad accettare scelte senza alcun confronto, io penso che il cammino comune nella fede non sarà mai quello sinodale. Sicuramente il numero delle sedi vescovili italiane è oggi anacronistico, ma un riassetto della geografia ecclesiale italiana non può che partire da uno studio attento che preveda una riorganizzazione davvero razionale e con scelte partecipate. Sto lavorando da qualche anno con altri amici nella commissione diocesana di Trivento per il Sinodo voluto da papa Francesco. Tutti i documenti fin qui elaborati ma in particolare lo “Strumento di lavoro per la Fase profetica” sono un invito costante a rendere tutto il popolo di Dio fedele alla Parola, partecipe nelle scelte e responsabile nella vita di fede. Se tali idee hanno un senso, è necessario che la Chiesa le faccia sue pienamente e concretamente. Qualcuno ha scritto anche con un certo sarcasmo spocchioso che i laici che chiedono ascolto e coinvolgimento nelle decisioni avrebbero dimenticato di essere in una struttura gerarchica e verticistica e dunque essi sarebbero degli illusi sognatori. Ecco io vorrei al riguardo precisare che i credenti impegnati conoscono bene la storia della Chiesa, sanno che Gesù agli apostoli che si chiedevano chi di loro era il più importante ha chiesto di dimostrare lontananza da ogni forma di potere e di assumere unicamente l’impegno del servizio. È per tale ragione che le prime comunità di cristiani erano unite da decisioni e da stili di vita che partivano dal grande principio della condivisione e coinvolgevano tutti nelle scelte da assumere. Questa è la struttura della Chiesa che ci trasmettono gli Atti degli Apostoli, la Prima Lettera a Timoteo del I secolo, la Didachè, raccolta d’istruzioni e usanze della Chiesa primitiva, scritta negli ultimi decenni del I secolo, in cui si legge: “Eleggetevi episcopi e diaconi degni del Signore, uomini miti, disinteressati, veraci e sicuri; infatti essi svolgono per voi lo stesso ministero dei profeti e dei dottori” e infine la Traditio Apostolica di Ippolito dei primi decenni del III secolo. Abbiamo avuto il Concilio Vaticano II, stiamo vivendo il Sinodo voluto da papa Francesco, ma ancora manteniamo sistemi di scelta dei pastori delle comunità ecclesiali che vengono dai compromessi storici della Chiesa con i poteri politici iniziati fin dal IV secolo con gli imperatori di Costantinopoli e giunti fino a noi. Don Lorenzo Milani ci ha insegnato che l’obbedienza non è una virtù, ma che si deve sempre fare riferimento alla Parola e alla coscienza critica che da essa deriva; dunque a lui era chiaro che anche chi ha fatto un voto di obbedienza ha tuttavia il dovere di manifestare dissenso su ciò che non condivide. Le forze che abbiamo speso per mantenere l’autonomia della diocesi di Trivento derivano solo dall’amore per un territorio nel quale abbiamo scelto di vivere, che amiamo e che vorremmo fosse amato da tutti quelli che devono prendere decisioni che ci piacerebbe fossero indirizzate sempre al bene comune. A livello personale proprio perché da credente amo la Chiesa ed essa c’insegna che occorre essere sempre dalla parte degli ultimi, io continuo a sperare che ciò avvenga soprattutto venendo incontro alle persone dei territori più in sofferenza. Sicuramente alcune strutture operative permangono nelle diocesi unite in persona episcopi, ma la figura di un vescovo presente tra i fedeli è un punto di riferimento e di guida che viene assolutamente meno con due diocesi dal territorio disagiato e da un numero di parrocchie così elevato. Spero soltanto di essere voce di quanti ricevono le decisioni assunte pur non condividendole e mi auguro che queste riflessioni possano essere utili per continuare con autenticità il percorso di fede che la comunità di Trivento ha sempre avuto. Quanto scrivo ha il solo fine di chiarire le motivazioni che spingono ad assumere iniziative che non esprimono contrapposizioni o polemiche sterili, ma mirano ad avere una Chiesa sempre più coerente con il Vangelo e vicina ai bisogni delle popolazioni. Proprio per questo sono umilmente ma pervicacemente legato a un impegno che mi auguro serva a un serio lavoro di elaborazione programmatica sul piano ecclesiale, civile e politico con lo scopo di continuare a dare speranza al territorio delle aree interne che ha bisogno del coraggio delle azioni e mai della rassegnazione che tante volte osservo con amarezza nell’afasia di chi rifluisce nel privato. È per questo che credo occorra continuare a lavorare perché nella nostra realtà si arresti la desertificazione che purtroppo avanza in tutti i settori della nostra vita e si dia speranza a chi ci vive per una degna qualità dell’esistenza.

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