Perché una campagna nonviolenta sui debiti di guerra?

Pax Crhisti di Antonio de Lellis 19 Febbraio 2025 Tag:,
Una pratica nonviolenza applicata ai temi finanziari e dei debiti illegittimi potrebbe ispirarsi ai tre livelli richiamati nel bellissimo volumetto di Pax Christi International “La nonviolenza di Gesù. Operare la pace secondo i vangeli”: coinvolgersi nelle vicende umane e sociali; scuotere le coscienze, denunciare e resistere alle ingiustizie; essere dalla parte degli ultimi. Il libro propone 7 verbi per un percorso nonviolento: Prevenire; Intervenire; Resistere; Riconciliare; Difendere; Costruire e Vivere. Proviamo ad applicarli ad un tema cruciale come quello delle spese militari ed in particolare a quello correlato dei debiti pubblici necessari per finanziare questa scellerata scelta. Partiamo dall’ultimo messaggio di Papa Francesco.
Nel Messaggio di papa Francesco sul tema “Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace”, per la 58ma Giornata Mondiale della Pace, si richiede, tra le altre cose, una nuova architettura mondiale. Il drammatico problema di governance delle Istituzioni Economiche Internazionali. Esiste dunque per Papa Francesco un drammatico problema di governance delle Istituzioni Economiche Internazionali ed è lecito domandarsi se sia lecito che la finanza conti di più del numero di esseri umani nel decidere le politiche economiche mondiali. Questo cosa comporta? Comporta che non esiste più il “contratto sociale”, la mediazione tra le parti, poiché un ceto sociale, quello degli investitori finanziari e degli speculatori, si è sottratto alla “polis” in cui avvengono i confronti. C’è già stata nella storia una architettura finanziaria? Sì, il sistema economico internazionale architettato nel 1944 a Bretton Woods per i Paesi ad economia di mercato prevedeva un sistema a cambi fissi, in cui tutte le valute erano convertibili in dollari e il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro. La minore incertezza e maggiore stabilità dei cambi rese stabili le economie, la presenza di regole relativamente affidabili aveva permesso non solo una prodigiosa crescita economica, ma, per la prima volta nella storia dell’umanità, una sua diffusione tra tutti i ceti sociali e in tutte le regioni del mondo. Anche i Paesi africani, asiatici e dell’America Latina poterono raggiungere ritmi di crescita mai sperimentati e anche le famiglie più povere riuscirono, a partire dagli Anni Sessanta in Europa e nel mondo, ad offrire ai loro figli un’istruzione superiore e di livello universitario. Questo consentì, fino agli Anni Settanta, una forte mobilità sociale, un benessere diffuso mai sperimentato prima e un sistema di welfare che proteggeva le fasce più deboli ed era consentito da due elementi: tassi di crescita delle economie più alti dei tassi di interesse (cosicché la crescita delle entrate fiscali, correlate alla crescita del reddito, fosse più marcata della crescita degli interessi passivi sul debito pubblico, correlati ai tassi di interesse) e forti vincoli ai flussi finanziari. Ma la fase del capitalismo “dal volto umano” si interruppe bruscamente agli inizi degli Anni Settanta per due fatti traumatici. A causa delle altissime e persistenti spese militari statunitensi, causate dalla prolungata guerra in Vietnam, la Federal Reserve aveva messo in circolazione una massa enorme di dollari, insostenibile e incompatibile con il sistema a cambi fissi di Bretton Woods che prevedeva la convertibilità del dollaro in oro. Di fronte a questa situazione, nel 1971, il presidente Nixon annunciò improvvisamente la sospensione della convertibilità di dollari in oro, facendo saltare tutto il sistema a cambi fissi e determinando una forte e prolungata perturbazione nell’economia mondiale. Due anni dopo, nel 1973, la guerra del Kippur fece esplodere il prezzo del petrolio e dell’energia. La globalizzazione e la concentrazione del potere economico. Un altro elemento importante è che dopo la globalizzazione, il potere economico è concentrato in pochissime mani e sfugga di fatto al controllo democratico delle opinioni pubbliche. Le politiche di Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti, a partire dagli Anni Ottanta, portarono al graduale smantellamento dei sistemi di protezione sociale nei loro Paesi (che hanno in parte resistito maggiormente nell’Europa continentale), a politiche monetarie caratterizzate da alti tassi di interesse che, facendo alzare il livello medio dei tassi di interesse a livello mondiale, hanno reso insostenibile per i governi di tutto il mondo la spesa per interessi passivi sul debito pubblico, costringendoli a drastici tagli sulla spesa sociale. Ma fu soprattutto la deregulation finanziaria a cambiare la faccia del mondo. Accogliendo precise istanze degli ambienti finanziari, vennero gradualmente eliminati negli USA, in Gran Bretagna e, successivamente, in Europa (spesso da governi “socialdemocratici” o socialisti, che avevano adottato in toto politiche economiche ultra-liberiste) tutti i vincoli ai flussi internazionali di capitale. A partire dagli Anni Novanta la globalizzazione era dunque un fatto compiuto. In pochi secondi si potevano spostare da una borsa all’altra del pianeta miliardi di dollari. Il capitale era perfettamente mobile, mentre la mobilità del lavoro, anche quando legale, era comunque lenta, costosa e imperfetta. Mentre dal ’45 agli Anni ’80 le crisi finanziarie furono poco frequenti e di portata molto limitata, dall’87 a oggi (cioè dai primi anni della globalizzazione a oggi) se ne contano già 4 catastrofiche e di dimensione planetaria. Per comprendere perché il tema del debito ci interessa, occorre guardare da vicino la storia del debito pubblico italiano. La storia del debito pubblico dall’unità d’Italia a oggi mostra una realtà diversa dalla narrazione secondo cui l’inefficienza dell’economia italiana sia dovuta unicamente alla spesa fuori controllo e alla corruzione. A essere rimosso è infatti il ruolo dell’impresa privata nostrana e dei suoi protagonisti. Se dal 1861, alla nascita della Repubblica, le impennate dell’indebitamento si spiegano sostanzialmente con le avventure belliche, la sua crescita anomala dopo gli anni Sessanta (del secolo scorso) non fu frutto della spesa sociale – rimasta inferiore agli altri paesi avanzati – ma del sostegno a un’industria privata fragile, che faticava a reggere la conflittualità operaia e la concorrenza internazionale. Dopo la fine del boom economico l’impresa pubblica assorbì aziende decotte e soccorse un capitale privato in ritirata dal rischio d’impresa, con sussidi diretti alle aziende superiori alla media europea e con una pressione fiscale molto generosa con profitti e rendite. Nel periodo successivo alla crisi del 2008 i debiti pubblici sono però cresciuti ovunque. Alcune delle cause che determinano la formazione distorta del debito pubblico italiano sono da attribuire a: meccanismi fiscali (mancata progressività, evasione, elusione, paradisi fiscali). L’articolo 53 della costituzione afferma che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” ed aggiunge che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Il che significa che la ricchezza non deve essere tassata tutta allo stesso modo, ma che le aliquote (percentuali di prelievo) devono crescere al crescere del reddito, secondo un sistema di scaglioni. Ma la progressività serve anche a ridurre le disuguaglianze e ad attivare il principio di solidarietà fra chi ha molto e chi ha poco. Per essere reale, la progressività, ha bisogno non solo di aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito, ma anche di cumulabilità dei redditi. Ci sono categorie di persone che hanno una sola fonte di reddito. Ma ci sono categorie più benestanti che ottengono redditi da più fonti: per affitti, per interessi su depositi bancari e altro. Se ogni tipo di reddito è tassato separatamente, le aliquote più alte non scattano mai e la progressività rimane azzoppata. Purtroppo l’Italia si trova in questa situazione perché solo alcuni redditi contribuiscono al cumulo, mentre altri sono tassati separatamente con un’aliquota fissa. E’ emerso che se sommiamo il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività delle riforme fiscali, e al mancato cumulo, otteniamo una perdita per lo stato. Ovviamente lo stato ha colmato questo tipo di ammanco con altro debito che, in virtù degli interessi composti, solo fino al 2017, ha prodotto un maggior debito pari a 295 miliardi di euro, corrispondenti al 13% di tutto il debito del 2017. Ma forse la causa più importante è dovuta ai tassi di interesse sul debito: considerato che dal 1992, con esclusione del 2009, ogni anno l’Italia ha restituito ai cittadiniservizi e investimenti per importi inferiori a ciò che ha incassato sotto forma di gettito fiscale, si può affermare che il problema dell’Italia sia l’incapacità di tenere il passo con la spesa per interessi. In altre parole in Italia il debito si moltiplica a causa degli interessi sugli interessi; un meccanismo noto in ambito bancario come anatocismo (dal greco ἀνατοκισμός: composto di ανα- «sopra, di nuovo» e τοκισμός «usura, interessi»). E quando il debitore ci casca dentro non ne esce più perché il debito si autoalimenta: gli interessi non pagati fanno crescere il capitale, e la crescita del capitale fa crescere gli interessi in una rincorsa senza fine. Naturalmente il caso italiano è del tutto anomalo perché a partire dal 1981 la Banca d’Italia ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato. La mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali. Quale fu la ragione del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro? Non lo sappiamo con certezza. Sicuramente una delle conseguenze fu che nel 1984 la scala mobile fu indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata. Anche oggi, come allora, le presunte “necessità” di bilancio pubblico sono la leva attraverso cui ridurre il salario, in Italia e in Europa. Con la differenza che oggi l’attacco si estende al salario indiretto, cioè al welfare. La corsa al riarmo nei Paesi della Nato provocata dalle minacce di Mosca «complicherà gli sforzi di riduzione del debito e potrebbe indebolire il loro profilo di credito», esacerbando il conflitto sociale al loro interno. Fra i Paesi più vulnerabili ci sono Spagna e Italia, visto che Madrid e Roma sono caratterizzate dai «maggiori gap nella spesa per difesa (rispetto all’obiettivo Nato del 2% del Pil, ndr) e i livelli più bassi di sostegno popolare a ulteriori aumenti di spesa militare». Rischio debito al 147%. È l’allarme lanciato da un report dell’agenzia di rating Moody’s, in un report del 28 marzo 2024 sui rialzi delle spese in Difesa intitolato «Higher defence spending will strain budgets, but is credit positive for companies». Secondo la ricostruzione dell’agenzia, il debito italiano è destinato a lievitare fino al 144% del Pil nel 2030, ma rischia di arrivare al 147% del Pil in caso di raggiungimento della soglia del 2% del Pil prefissata come target dall’Alleanza Atlantica. L’agenzia fa notare nel suo report che l’exploit di spesa militare può essere «positiva per le aziende», ma rischia di tradursi in un fardello per i Paese in assenza di misure di compensazione. «Senza iniziative di policy come misure di aumento delle entrate, tagli di altri capitoli di spesa, o una combinazione di entrambi – scrive Moody’s – centrare il target Nato in modo sostenibile entro il 2030 sarà un peso per la solidità di bilancio di Francia, Italia, Germania e Polonia». La situazione potrebbe diventare anche se più critica se le tensioni geopolitiche spingessero a una spesa militare fino al 4% del Pil, picco simile a quelli degli anni più intensi della guerra fredda. L’Italia si ritroverebbe, in quel caso, con un rapporto fra debito e Pil al 180%: uno scenario, prosegue l’agenzia di rating, dove «il debito di Germania, Italia e Spagna si avvicinerebbe ai picchi visti durante la pandemia, e li supererebbe in Gran Bretagna, Francia e Polonia». L’impatto sociale del riarmo Moody’s, nel suo approfondimento, valuta anche un beneficio per l’industria della difesa, salvo evidenziare le difficoltà delle imprese europee nel tenere testa alle richieste che potrebbero emergere dal mercato. Una complicazione che si sommerebbe a quella, più vasta, dell’impatto «sociale» della corsa al riarmo su economie già pervase da fibrillazioni interne. «Dato il fardello che rappresenterebbe un aumento della spesa finanziato esclusivamente a debito, i governi probabilmente cercheranno di introdurre misure che aumentino le entrate o introdurranno aggiustamenti alla spesa» anche per limitare l’impatto di fiducia da parte dei mercati. «Queste pressioni – prosegue il documento – probabilmente saranno sentite più acutamente nei Paesi già altamente indebitati come Spagna e Italia». Le conseguenze dell’exploit di spesa non sarebbero, comunque, un’esclusiva delle economie dell’Europa meridionale. Fra le “vittime” di un rialzo delle spese potrebbe comparire anche la Germania. L’amministrazione di Berlino, si legge nel report, «troverà difficoltà nel finanziare una simile spesa indebitandosi, dato il suo tetto al debito sancito dalla Costituzione» Spese per la difesa fuori dal deficit, la Ue apre, cosa vuol dire per l’Italia
Perché passare dal 2% a oltre il 3% significa decine (centinaia per l’Europa) di miliardi di investimenti in più ogni anno. La scelta di attivare la “clausola di salvaguardia” per le spese della difesa va nella direzione di quanto chiede il governo italiano, che da tempo propone di scorporare le spese della difesa dal Patto di stabilità. Il segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, ha proposto di alzare l’asticella oltre il 3%. Ma arrivare al 3% del Pil per la difesa per l’Italia significa aggiungere 33 miliardi a quello che spende allo stato attuale. Il nuovo Patto di stabilità, che conserva una forte impronta tedesca ed è in vigore da meno di un anno, è infatti un po’ meno rigido del precedente ma aumentare le spese militari per gli Stati membri ad alto debito resta complicato e politicamente rischioso. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha sottolineato in più di un’occasione che le regole Ue sui conti pubblici impediscono all’Italia di spendere per la difesa come vorrebbe. Occorre dunque alzare l’asticella senza mandare in affanno i conti pubblici. Anche perché il nuovo presidente Usa Donald Trump ha chiesto di portare al 5% il contributo all’Alleanza Atlantica. Se si sceglie questa strada faremo una fine peggiore degli anni 70″ allorquando gli USA fecero saltare l’architettura finanziaria mondiale siglata a Bretton Woods nel 1944. Oggi come allora le spese militari e i debiti di guerra crearono una forte instabilità che si trascina ancora oggi, aggravata dai vari passaggi della deregolamentazione finanziaria. Costruire una nuova architettura finanziaria allora significa soprattutto tenere a bada il sistema finanziario e bandire le spese militari, promuovendo solo gli investimenti per il benessere sociale ed economico dei diseredati e di coloro che sono a rischio povertà. La costruzione di una nuova architettura finanziaria rappresenta un orizzonte politico globale fondamentale, forse non alla nostra portata, ma eliminare questo patto scellerato europeo dell’aumento delle spese militari, lo è. Rispetto a questo quadro, non resta che attivarsi per una nuova campagna contro i “debiti di guerra”. Ed è su questa linea che i movimenti che si richiamano ai valori della pace e della nonviolenza possono e devono dare un contributo significativo con ogni azione legale, di boicottaggio, sanzione e disinvestimento.

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