25 aprile 2021: non solo memoria ma disegno del futuro

Nel secondo anno della pandemia la Festa della Liberazione sia non solo celebrazione ma impegno per una rinascita come nel 1945 dopo la catastrofe della guerra e del regime fascista.--------------------------------------------------------------Angelo d'Orsi MicroMega
Con una mestizia più grave di quella dell’aprile 2020, anno primo della pandemia, ci apprestiamo a celebrare la festa della Liberazione, in questo anno secondo. En attendant Godot: la scomparsa del Coronavirus, il vaccino o i vaccini salvatutto, l’estinguersi della Covid-19, e ancor di più, un mondo nuovo post-pandemico. Ma con i fondati timori (per me personalmente assai più che timori) che ci illudiamo quando ripetiamo: “Nulla sarà più come prima”. I cambi di governo a cui abbiamo assistito, tutto sommato inerti e silenti, dal 2018 in avanti, hanno mostrato impietosamente il livello degradato, e degradante per il Paese tutto, del ceto politico, ormai dominato in modo generale, e direi assoluto, dall’opportunismo, dalla cialtroneria, e molto frequentemente, da comportamenti persino criminali. PUBBLICITÀ E dove sono i nuovi partigiani del prossimo XXV Aprile? Dov’è la vittoria che porga la chioma a noi resistenti? Passeremo anche questa celebrazione, orfani di Carla Nespolo (compianta presidente dell’ANPI, troppo presto scomparsa), e riprenderemo le nostre occupazioni, che troppo spesso mi paiono vane, rispetto alla mega-macchina che ci schiaccia: la nostra buona volontà, sarà sempre meno bastevole a reggere, il nostro residuo entusiasmo fino a che punto ci sospingerà a lottare? Ci resta la cultura, certo, ma anch’essa, che spesso ci garantisce soltanto pubblico disprezzo da parte della classe politica, è oggi messa all’angolo, proprio sfruttando il pericolo della pandemia. Così, per fermare il virus polmonare si è fermato, o si è cercato di fermare, il virus culturale. Nelle diffuse, ma disorganiche e disperse iniziative testimoniali degli scorsi mesi, contro scelte politiche scriteriate, scoordinate (ah, la piaga del regionalismo!), improvvisate, abbiamo constatato, pressoché impotenti, la determinazione della classe dominante (imprenditoriale e politica) contro gli spazi, logistici e organizzativi della cultura. Cultura nel suo significato più ampio, dalla formazione scolare e universitaria, ai luoghi di incontro, al teatro, al cinema e quant’altro. E la grande risorsa del web, che molti hanno salutato con un senso di sollievo, perché evitava faticosi spostamenti, la didattica a distanza, le conferenze in webinar, è stato uno dei frutti più velenosi delle politiche di “contenimento del contagio”: tutto questo non è cultura, ma pseudocultura; non è formazione, ma deformazione. E ha avviato un processo che sarà assai difficile fermare e tanto meno invertire. Ci sono ministri che stanno dicendo già da tempo che un ritorno alla scuola o alla visita a un museo sarà impossibile, e quando parlano così esprimono soddisfazione, non turbamento o inquietudine: quelli restano a noi. Lo stesso dicasi per il lavoro: lo smartworking sarà una sciagura, sulla media distanza, e già ne abbiamo le prove. L’aumento delle problematiche psicologiche e psichiatriche nella scuola sono le stesse negli ambiti lavorativi. E mentre nella scuola si sta distruggendo una generazione di discenti, a ogni livello di scolarità, nelle aziende il lavoro “agile”, sarà il grimaldello per riduzione di personale, per trasformazioni del processo produttivo a tutto svantaggio dei lavoratori. Tanto più che sappiamo la ferrea durata, specialmente in Italia, di ciò che ci viene presentato come provvisorio. E ben conosciamo l’incultura dei nostri governanti, che non si identifica semplicemente nel “non sapere” e neppure nel “non voler sapere”, ma piuttosto nella totale estraneità al “comparto Cultura”. O meglio, esso riscuote qualche interesse solamente allorquando esso viene visto in termini economici, quando si scorge che una mostra, un concerto, un restauro, una “scuola d’eccellenza” (?), possono produrre profitto. E taccio delle ferite inferte allo Stato di diritto, su tutti i piani, in un silenzio passivo del supremo garante della Costituzione. Anche questo non sarà senza effetti. Ci verranno restituite tutte le libertà, e l’agibilità di spazi e iniziative politiche? Ecco, tutto ciò premesso, io credo che al XXV Aprile dell’anno secondo della pandemia dovremmo dare un significato molto particolare, specifico: non di celebrazione, non di retorica resistenziale, non di memoria antifascista. Certo non dico di escludere tutto ciò, ma ritengo che dovremmo puntare su una sorta di “grande balzo in avanti”. Non vogliamo tornare a “prima”? Ebbene, disegniamo il futuro: con la temerarietà e il coraggio che talora la politica richiede (“il lione” machiavelliano), ma anche con la prudenza e l’astuzia indispensabili (“la golpe”). Proviamo a mettere insieme tutti (ma proprio tutti!) coloro che fatto salvo il valore duplice e indissolubile della democrazia e dell’antifascismo, ritengono che “a ognuno puzza questo barbaro dominio”; e costruiamo un percorso che come i vincitori della lotta contro Mussolini (e Hitler) dovettero fare, provi a delineare una “Nuova Italia” (magari pure una “Nuova Europa”), che punti alla rinascita, proprio come nel 1945, dopo la catastrofe della guerra e del regime che ci aveva gettati in essa. Una Italia che si batta per la libertà e la giustizia, che rinunci alle logiche fondate sulla predazione del territorio, sulla devastazione dell’ambiente, sulla svalutazione della scuola, sul disprezzo per la cultura; una Italia che ritrovi la sua unità politica, eliminando la delittuosa modifica al Titolo V della Carta Costituzionale, come minimo, e riassegni allo Stato, in modo uniforme e centralizzato, almeno sanità e scuola. Una Italia che sia in grado di ridestare le “buone energie” come diceva Gramsci, o le “energie nove” come scriveva Gobetti: e dia a tali energie la possibilità di aiutare a far sbocciare cento, mille fiori, nella piccola imprenditoria, nell’artigianato, nell’editoria, nel giornalismo, nella cinematografia, nel teatro, nella musica, premiando chi non si sottrae al fisco, chi non traffica con il crimine organizzato, chi crede ostinatamente che l’onestà – su ogni piano a cominciare da quello intellettuale e politica – sia un valore, e un valore primario, fondante non un valore “aggiunto”. Tutto questo non sarà il socialismo; ma come ha insegnato Rosa Luxemburg, aspettando la rivoluzione, non ci opporremo certamente alla riforma: e magari scopriremo che stiamo costruendo davvero il socialismo. Il socialismo del XXI secolo. Ecco che cosa attendo, o sogno, dal 25 aprile 2021.

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