8 Marzo, riflessioni e proposte di un gruppo di donne
Oggi, 8 Marzo, Festa della donna. Il giorno che mi riporta indietro, negli
anni'70, quando le compagne della sezione di S. Quirico, Legnaia, Ronco e Torri,
nella periferia di Firenze, prendevano da un armadio la bandiera cucita a mano
subito dopo la liberazione e la dispiegavano per poi metterla all'ingresso della
Casa del Popolo di S.Qurico, la sede delle tante iniziative e della grande
festa. Per non dimenticare il significato di questo giorno e le tante lotte
delle donne. riporto un docuento di grande attualità prodotto da un gruppo di donne de La Società
della Cura.
Riflessioni e proposte per facilitare la discussione nella plenaria della
“Società della cura” di venerdì 5 febbraio 2021 Gruppo di lavoro sulla lettura
critica del PNRR da un punto di vista femminista Questa lettura femminista del
PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA/ Next Generation EU Italia (PNRR) è
proposta da un gruppo di donne che ha lavorato sul Piano analizzandone i
principi di fondo e le diverse proposte concrete di cui si compone. Ci sembra
utile all’interno del percorso della “società della cura” condividere una
lettura, che non riguarda solo le donne, ma invita donne e uomini a ragionare,
con l’orizzonte di un diverso modello sociale, sulla necessità di una
rivoluzione nelle relazioni fra generi, di un superamento della storica
separazione gerarchica fra produzione e riproduzione, domestica e sociale, e di
un cambiamento radicale nei processi decisionali relativi sia alla distribuzione
della ricchezza prodotta che al che cosa e come produrre. Il PNRR non
rappresenta un cambiamento – il paradigma della cura Stiamo vivendo una crisi
multipla, pandemica ma anche economica, sociale, politica e culturale. Tale
crisi è trasversale ma non neutra, perché nasce e vive dentro una società nella
quale l’appartenenza di genere, di classe e di origine geografica determinano
asimmetrie di potere e di status, non colpendo tutte e tutti allo stesso modo.
Le donne, ancor di più se di classe sociale impoverita e/o migranti, pagano e
pagheranno a livello globale un prezzo altissimo in termini di diritti e di
condizioni di vita, di ulteriore marginalizzazione economica e sociale.
Aggiungiamo che il confinamento ha comportato una maggior esposizione alle
violenze maschili, con un aumento esponenziale di violenza domestica, oltre a
una preoccupante ripercussione sull’applicazione della 194: diversi ospedali,
impegnati contro il coronavirus, hanno sospeso le IVG dichiarandole interventi
non urgenti! È chiaro quali siano i soggetti sociali più colpiti. Per questo
vogliamo agire di conseguenza, conducendo il conflitto dentro e fuori le
istituzioni. Il PNRR, non riconoscendo le differenti condizioni materiali di
donne e uomini, non avanza proposte capaci di rispondere ai bisogni concreti. È
un programma politico che respinge il cambiamento e nega di fatto il soggetto
donne, non riconoscendone l’unitarietà pur nella varietà delle scelte e fasi
della vita - donne giovani, anziane, madri se vogliono, lavoratrici – in quanto
soggetti che si autodeterminano. Noi abbiamo una visione diversa: le donne sono
più della metà della popolazione, sono soggetti di diritti, sono protagoniste.
Il PNRR rappresenta la ricaduta italiana delle politiche europee decise durante
la epidemia di Covid 19 per affrontare il conseguente tzunami economico, sociale
e umano a cui sono sottoposti uomini e donne di questo pianeta. L’allarme è
sanitario, sociale, ecologico, umano. Tutto dovrà cambiare, si diceva. Cosa è
rimasto di quel grido? Il PNRR procede in continuità sostanziale con il passato,
caratterizzato da politiche di austerità che hanno scientemente eroso gli spazi
di libertà e di autodeterminazione che le Costituzioni del secondo dopoguerra
avevano aperto e le lotte degli anni 70’ e 80‘ allargato. L’ordine dei tre assi
strategici - innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione
sociale - è implicitamente gerarchico: mette al primo posto il salto tecnologico
della innovazione e digitalizzazione, presupponendone la neutralità sociale e di
genere; al secondo la transizione ecologica, declinata in modo ambiguo e
contraddittorio; per ultima colloca la inclusione sociale, vista prevalentemente
come induzione, organizzazione e conservazione del consenso, prevenzione del
conflitto sociale e di genere, che sarà inevitabile, date le disuguaglianze in
aumento, mai declinate in tutte le loro facce e causalità, a partire da quelle
di genere. L’obiettivo di portare il tasso di occupazione femminile ai livelli
medi europei viene finalizzato all’aumento del PIL, indicatore di crescita
economica fortemente criticato dal femminismo perché inadeguato e ingannevole
misuratore del benessere, in quanto non dà conto della distribuzione del
reddito, delle esclusioni sociali, della qualità della vita. Noi proponiamo la
cura come nuovo paradigma politico-sociale dentro il quale declinare il
benessere, i diritti e le libertà delle donne e degli uomini. Cura di sé e cura
degli altri appaiono nel nostro tempo, diversamente da tempi lontani, come
quello della civiltà greca, irrimediabilmente separate, con la conseguente
perdita del senso politico che accompagnava la loro unione. Una società fondata
sulla cura oggi significa mettere la cura della vita, delle relazioni,
dell’ambiente, della produzione e riproduzione sociale, del mondo, al centro di
un nuovo modello sociale. Adottare il paradigma vuol dire in primo luogo
valorizzare tutti coloro che si prendono cura delle persone e della nostra terra
(comunità competente), l’interconnessione che produce solidarietà, e riconoscere
il prendersi cura della persona come ingrediente della cittadinanza. La
transizione ecologica In relazione a quella che viene definita la transizione
ecologica e rivoluzione verde, la nostra riflessione ha riguardato le politiche
energetiche e quelle agricole perché strettamente connesse con il paradigma
della cura. Arundhati Roy, scrittrice indiana e attivista ecofemminista, ha
scritto: «Per prepararci a quanto ci aspetta, per attrezzarci di strumenti con
cui pensare l’impensabile, le vecchie idee non serviranno». Il PNRR manca di una
visione sul bene comune, ci sono parole vuote e riferimenti superati nella parte
in cui si fonda su crescita, sviluppo sostenibile, consumo, impresa, puntando
sulla grande industria, l’infrastruttura pesante, l’alta velocità, i nuovi
porti. Non c’è più bisogno di grandi opere invasive ed onerose, ma di un’opera
complessiva, da nord a sud, di messa in sicurezza e protezione dei nostri
territori locali, feriti da dissesto idrogeologico e da attività predatorie. La
fragilità dei nostri territori e dell’ambiente intorno a noi è la fragilità dei
nostri corpi, delle nostre vite. Si è persa l’occasione di realizzare un
cambiamento in senso ecologico della visione sociale, culturale, politica,
economica mettendo al centro la cura della vita, dei corpi, delle persone, di
tutti gli esseri viventi, della natura, dei beni comuni, delle città,
dell’ambiente complessivo. Il PNRR non realizza una rivoluzione ecologica
sostenibile delle energie e del loro approvvigionamento, trascura l’aspetto
della democratizzazione e della generalizzazione dell'accesso all'energia e la
connessione tra questa questione e il mondo del lavoro. Una transizione giusta è
essenziale se l'economia globale vuole passare a un'economia a basse emissioni
di carbonio e capace di evitare danni climatici catastrofici. I governi, le
istituzioni internazionali, le imprese, i sindacati, la società civile, le
comunità ed anche gli investitori pongono sempre più attenzione ai posti di
lavoro e ad una dimensione sociale più ampia della transizione. Dato che la
percezione molti/e è che le grandi imprese stanno bloccando la transizione
energetica, dovrebbero prevalere i movimenti per la giustizia sociale e
climatica, l’opposizione collettiva alle soluzioni del mercato motivate dal fine
di lucro, basandosi sulle diverse forme di democrazia energetica che si stanno
sviluppando in tutta Europa. La democrazia energetica richiede di organizzarsi
per creare un sistema energetico socialmente più giusto, sostenibile e
controllato collettivamente. Per rispondere all'emergenza ambientale occorre
staccarsi dalla visione capitalistica di crescita e consumi illimitati e
diffondere un concetto di vivere bene, partendo dal territorio e la sua
popolazione e dando quindi riconoscimento alle tante alternative esistenti. Le
proposte devono tener conto del legame tra salute e clima, e della distorsione
di genere nelle malattie legate alla crisi ambientale e agli sfollamenti
forzati, in un sistema basato su espulsioni e frontiere. Questi processi
violenti sono parte degli scenari di sfruttamento globale, di cui fanno parte le
rotte migratorie, la tratta degli esseri umani, prevalentemente di donne e
bambini, le leggi inique sull'immigrazione, i meccanismi che criminalizzano la
povertà, i processi di rottura del tessuto sociale... e qualsiasi proposta di
transizione eco-sociale dovrebbe tenerne conto per la trasformazione. Poiché il
cambiamento climatico aumenta la vulnerabilità delle donne e il divario di
genere, è fondamentale l’impegno del movimento femminista sull’ambiente per
salvare il pianeta e l'umanità, per contrastare le disuguaglianze. Le donne, e
in particolare le donne povere e tutte quelle soggette a discriminazioni,
sopportano il peso maggiore dell’impatto climatico, mentre si dimostrano
essenziali per rispondere al cambio climatico, piantando alberi, riciclando
rifiuti, indicando minor consumo di carne e mille altre misure. Non è un caso
che l’agricoltura, ed in particolare l’agricoltura femminile, sia assente dal
PNRR. Agricoltura All’agricoltura vengono dedicate poche righe con la generica
definizione “agricoltura sostenibile e di precisione”. “Agroecologia” non
compare, né agricoltura biologica. “Biodiversità” è sconosciuta. Non si
considera che circa un terzo delle emissioni serra è legato al cibo e quasi un
quarto può essere direttamente ricondotto all’agricoltura e all’uso del suolo.
Tale impostazione appare ancora più grave in relazione ad altre forme di
finanziamento delle politiche agricole europee, PAC in primis, le quali
prevedono che il 60% dei fondi non sia vincolato a pratiche agroecologiche e
hanno permesso che l’80% dei fondi andasse ad appena il 20% delle aziende
agricole, imprese di grandi dimensioni, per produzione industriale e allevamento
intensivo. Questa impostazione è evidente nell’esiguità dei soldi da investire
(Missione 2) nella linea Agricoltura sostenibile (5 mld), ma soprattutto nella
grande assenza dell’imprenditoria agricola femminile, esempio di sostenibilità e
resilienza. Le donne rappresentano la visione dell’agricoltura del futuro,
basata su produzioni salubri, compatibilità ambientale, innovazione, rilancio
delle aree rurali, che andrebbe promossa e valorizzata con politiche coraggiose
e risorse adeguate. In questo senso, un “nuovo patto per la terra” non può che
partire dalle donne: risorsa indispensabile e uno dei driver vincenti per il
progresso del settore e dell’economia di un paese che pone il benessere come
cifra del suo sviluppo. La presenza delle donne in agricoltura è la chiave per
realizzare gli obiettivi di crescita produttiva e tutela di biodiversità e
tradizione. L’affermarsi dell’imprenditoria femminile, come scelta non solo
economica ma di vita, ha largamente contribuito, ad esempio, a riequilibrare la
forte polarizzazione del mercato agricolo italiano contrastando la tendenza alle
colture e agli allevamenti intensivi, attraverso indirizzi produttivi
diversificati, rendimenti più contenuti, attività con un uso più intensivo del
lavoro, orientandosi verso un modello multidimensionale, sviluppando canali
commerciali diversi e complessi. Si pensi alla nascita dei Gas o dei Gac o ad
altri esempi di piccola distribuzione commerciale specializzata improntata alla
filiera corta e al rapporto diretto con il consumatore. L’affermarsi della
occupazione femminile agricola avrà la funzione di coniugare i bisogni umani e
le risorse naturali, le imprese agricole femminili costruiranno un nuovo modello
di agricoltore, che produce cibo sano e di qualità, collabora con la ricerca
scientifica, anticipandola e seguendola nei suoi progressi in campo alimentare e
nutraceutico, aprendosi a tutte le produzioni possibili, sperimentando nuove
fibre, nuovi materiali per bioplastiche, fornendo agroenergie, generando
paesaggi unici, insegnando ai bambini il valore dell’ambiente e del cibo.
Riteniamo quindi che il PNRR debba essere riformulato, soprattutto attraverso
finanziamenti e riforme strutturali che favoriscano la crescita dell’economia
agricola femminile, sul versante dell’imprenditorialità come del lavoro
salariato, con modifica di investimenti e finanziamenti per l’avvio di imprese
agricole femminili a vocazione biologica e multidimensionali. Questo significa
anche inclusione sociale. Per le donne migranti, le donne vittime di violenza
domestica, le donne sole con figli, le donne che vivono un disagio
socio-economico e di marginalità, le donne che verranno espulse dal mercato del
lavoro in conseguenza della crisi economica post Covid, l’agricoltura può
rappresentare un’occasione per riacquistare un protagonismo attivo, che rilanci
anche culturalmente la centralità delle donne in un futuro diverso. Occupazione
femminile, produrre e riprodurre Un obiettivo dichiarato dal PNRR è
l’eliminazione del gender gap, in realtà il risultato sarà il mantenimento dello
status quo, nel quale rientra anche la perpetuazione della marginalizzazione
delle donne, nell’ambito del mercato del lavoro e della società. Il PNRR
considera l’accesso al lavoro delle donne tra gli obiettivi dell’inclusione
sociale, non l’esercizio consapevole di un diritto, della cittadinanza e della
propria soggettività. Non identifica le cause della disparità di genere nel
mondo del lavoro, né tiene conto del fatto che l’attuale crisi è generata dagli
squilibri dell’organizzazione sociale e del sistema di riproduzione. Non è più
possibile programmare la produzione senza farsi carico della riproduzione delle
persone, dell’ambiente e del mondo, possibilmente in pace. Questo PNRR ha un
orizzonte miope. La trasversalità dichiarata degli obiettivi rischia di restare
sulla carta, in assenza di politiche finalizzate a risultati attesi. Questa
“crisi della cura e della riproduzione sociale”, ha messo in evidenza la
fragilità di una organizzazione sociale che lascia le donne, le loro
intelligenze, le loro risorse fuori dai luoghi decisionali della organizzazione
sociale. La parità di genere sul fronte occupazionale ne presuppone un
cambiamento profondo, attraverso investimenti pubblici che rimuovano gli
ostacoli alla piena partecipazione delle donne nei lavori e nelle decisioni.
L’aumento dell’occupazione delle donne è dichiarato un obiettivo prioritario e
trasversale del piano, ma non viene declinato in obiettivi misurabili nella
programmazione degli interventi. Una nuova società fondata sulla cura e non sul
profitto non promuove gli aspetti meramente quantitativi della produzione, né i
meccanismi di competizione finalizzati al massimo profitto. Il PNRR dichiara che
i massicci investimenti annunciati nell’innovazione tecnologica e digitale sono
funzionali a creare nuovi posti di lavoro, promuovere l’istruzione e aumentare
la competitività in un contesto di green economy al fine di migliorare la vita
dei cittadini. Ma quali posti di lavoro? Per chi? In che condizioni? Rispondere
a queste domande sarebbe stato doveroso, vista anche la grande quantità di
risorse che viene assegnata alla digitalizzazione. Sul versante della
“riproduzione sociale” spesso sono le donne migranti a svolgere il lavoro di
cura rappresentando un’alternativa al welfare familistico. In questo senso il
lavoro di cura retribuito e non retribuito si incrociano, come le storie e i
percorsi delle donne, dentro un contesto culturale e giuridico di
misconoscimento del lavoro di cura, in una visione che confonde donne e welfare,
come se quest’ultimo fosse appannaggio femminile e servisse solo alle donne. Nel
PNRR le politiche di genere vengono in più punti confuse con le politiche per le
famiglie, definite per la famiglia, e considerate una cosa sola. Le donne non
sono “famiglia”, sono soggetti di diritti, tra cui il diritto al lavoro e alla
autodeterminazione. La mancanza di un reale approccio di eguaglianza di genere e
sociale rende il PNRR totalmente inadeguato ad affrontare ciò che si potrebbe
definire una riscrittura del patto sociale alla base della possibilità di vita
migliore per questa e per le prossime generazioni. Per farlo servono misure
concrete per la ripartizione dei lavori di cura all’interno dei nuclei
familiari, come prevedere l’aumento e l’obbligatorietà per tutte/i dei congedi
parentali, anche per i padri nei primi anni di vita delle/dei figlie/i; congedi
usufruibili contemporaneamente da entrambi i genitori per la gestione comune
della prole. Quanto al ricorso al lavoro di cura o domestico salariato, deve
avvenire nel pieno rispetto dei diritti del lavoro, compreso quello delle donne
migranti per le quali un lavoro regolare sicuro e ben pagato può fare realmente
la differenza. In questo discorso vanno incluse le donne richiedenti asilo, che
hanno affrontato gli orrori dello sfollamento, della criminalità connessa alla
migrazione e delle politiche dei respingimenti. Un Piano che promette
l’inclusione sociale dovrebbe prevedere misure volte a favorire i percorsi di
accoglienza e di integrazione dei cittadini stranieri, soprattutto delle donne.
Digitalizzazione La digitalizzazione può aumentare le disuguaglianze anche tra i
generi in quanto processo di riorganizzazione del lavoro non neutro. Comunemente
con il termine digitalizzazione si intende l'introduzione nei processi
lavorativi di nuove tecnologie digitali sostitutive o trasformative. È
importante capire se ci sono e quali sono per le donne i rischi e le
opportunità, visto che il PNRR pone la digitalizzazione non solo al centro delle
politiche di sviluppo economico, equo e sostenibile del paese, ma la mette al
primo posto come fattore di rimozione delle disuguaglianze di genere, a partire
dal mercato del lavoro. Le insidie sono molte, i pregiudizi e gli stereotipi di
genere che investono questo settore sono radicati ad ogni livello. Spesso nel
ragionamento sulle cd. discipline STEM si parla di gender gap, di orientamento e
politiche di “segregazione positiva”, di divario nel mondo dell’istruzione che
si riflette nel mondo del lavoro. Ma è un punto di vista parziale. La
digitalizzazione può rappresentare, se sottratta alla logica capitalista e
maschilista, una grande opportunità per rilanciare un nuovo modello sociale al
femminile. Esiste una consolidata abilità del pensiero femminile
all’implementazione tecnologica. Le donne devono semplicemente essere messe
nelle condizioni di sviluppare un talento che è molto più femminile di quanto si
creda, e che potremmo chiamare una "naturale" vocazione alla praticità, al fare.
Di questo la tecnologia può godere molto. Nel momento in cui si passa dalla
catena di montaggio alla rete di menti pensanti questo argomento assume una
maggiore rilevanza. Pensare la tecnologia significa pensare il mondo. La
rivoluzione digitale ha bisogno di intelligenza e le donne ne hanno da vendere,
insieme a capacità relazionali, nonostante che, per ostacoli prevalentemente
culturali, ancora non ingrossino le fila dei laboratori e dei corsi di scienza e
tecnologia. La digitalizzazione che emerge dal PNRR invece rappresenta
un’operazione neutra, funzionale, è in sintesi un investimento economico
importante, dedicato in minima parte alla digitalizzazione della pubblica
amministrazione, mentre la parte maggiore della missione è dedicata alla
componente “Innovazione, competitività, digitalizzazione 4.0 e
internazionalizzazione” delle imprese. Senza una valutazione, meno che mai di
genere, sui risultati attesi e sulle strategie per raggiungerli. La logica
rimane quella fordista dei processi produttivi, dove la digitalizzazione è solo
una nuova versione della meccanizzazione. Non c’è traccia nel PNRR di un’azione
per accrescere le competenze digitali sia degli impiegati pubblici sia dei/delle
cittadini/e potenziali fruitori dei servizi online. Senza affrontare il tema del
diffuso analfabetismo digitale nella popolazione, mentre si pensa di
telematizzare di fatto l’esercizio dei diritti, si verificherà un minore
protagonismo della popolazione, con effetti maggiori sulle donne anziane, sulle
donne straniere, sulle donne con un basso livello di istruzione. Un altro
rischio che si intravede riguarda gli effetti che la digitalizzazione comporterà
per l’occupazione femminile. La trasformazione digitale rafforzerà o indebolirà
la posizione delle donne nel mercato del lavoro? Sono principalmente due le
variabili che saranno introdotte dalla digitalizzazione: l’automazione e la
maggiore flessibilità nelle modalità e negli orari di svolgimento del lavoro.
Per quanto riguarda la flessibilità, l’Ocse suggerisce che può rappresentare una
grande alleata delle donne. Ma questi potenziali benefici sono contrastati dal
rischio di una diminuzione della qualità del lavoro, dall’aumento della
precarietà e del numero di ore effettivamente dedicate al lavoro. La
digitalizzazione, infatti, se porta anche con sé possibilità di lavori diversi e
più flessibili, per le donne si può trasformare in una nuova gabbia,
stringendole tra lavoro di cura in famiglia e contemporaneo lavoro produttivo.
Lo smart working emergenziale, di fatto homeworking, è stato una vera trappola
per le donne con la replicazione della prestazione di lavoro normalmente svolta
in uffici ma svolta nelle abitazioni private, cioè quindi caratterizzata da una
forte rigidità del lavoro. Per questo in parallelo alla trasformazione
dell’organizzazione del lavoro non neutra occorre disciplinare le nuove
tipologie contrattuali come lo smart working andando al di là della legge
81/2017. Occorre ridefinire questa modalità lavorativa e ribadire che non si è
di fronte ad una misura di conciliazione tra vita e lavoro ma ad una nuova
organizzazione del lavoro rispetto alla quale bisogna prestare attenzione alle
mille insidie che porta con sé, salvaguardando la dimensione sociale e politica
del lavoro e delle relazioni che vi si intrecciano. Occorre pertanto agire il
conflitto dentro alle tendenze di sviluppo del capitalismo. Ma questo è
possibile solamente in presenza di una lettura femminista, in virtù della quale
l’istruzione e la formazione non sono subordinate al mercato e al capitale. La
questione delle discipline e dei settori STEM in connessione con la spinta della
digitalizzazione ha ricadute anche sul piano culturale della definizione delle
soggettività femminili. Occorre parlare di desegregazione delle discipline
scientifiche o STEM ma non di formazione direzionata e forzata delle ragazze
verso quelle stesse discipline. Favorire per le ragazze percorsi, sia alle
superiori sia all’ università, di carattere tecnico scientifico con opportune
politiche sarebbe importante, senza schiacciare l’istruzione pubblica in una
logica di aziendalizzazione. Il senso costituzionale della scuola è d’altro
canto essere il luogo dove si formano cittadine e cittadini completi, non
semplicemente «utili impiegati». Le criticità della dematerializzazione della
scuola attraverso il grande piano di digitalizzazione che la coinvolge,
destinando buona parte dei fondi alla didattica digitale, avranno ricadute
importanti sui percorsi di crescita e formazione delle ragazze. Infatti non una
parola viene spesa sulla formazione di genere nella scuola, sull’educazione
all’affettività per contrastare la cultura della violenza contro le donne, sulla
necessità di adottare testi scolastici che promuovano la parità di genere e che
trasmettono il reale protagonismo delle donne in tutte le discipline. Cura vuol
dire pace e sicurezza nel mondo La pandemia COVID-19 ha dimostrato che la nostra
sicurezza dipende dall'accesso all'assistenza sanitaria, all'approvvigionamento
alimentare, all'istruzione, a redditi dignitosi. Sicurezza è prendersi cura
l’uno/a dell’altro/a e del mondo. Le armi non possono fornire nulla di tutto
ciò. Benvenuto il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, ma anche
l’Italia, che “ospita” 40 testate nucleari) deve ratificarlo! Le armi non sono
servite a darci sicurezza contro la pandemia, e non serviranno contro il
riscaldamento globale e le sue conseguenze. La pandemia ha mostrato che le
minacce alla sicurezza umana sono globali, non contenute da confini nazionali
militarizzati; ha messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli
investimenti nella “sicurezza militarizzata” a scapito della sicurezza umana e
della salute collettiva. Il PNRR avrebbe potuto offrire l'opportunità per
mostrare la volontà politica e l'azione concreta per l’affermazione di una
sicurezza nazionale e globale sostenibile, giusta e pacifica. Disarmare e
disinvestire dal militare per investire nella riconversione al civile, nella
capacità di prevenzione dei conflitti, che costa meno della partecipazione ai
conflitti, in termini di vite umane, ecosistemi e in termini economici. Un
modello di sviluppo incentrato sull’economia del profitto favorisce la spinta
alla concentrazione dei profitti, alle conseguenti disuguaglianze sociali,
squilibri mondiali, guerre per il controllo dei mercati: in una parola,
all’insicurezza globale e all’ulteriore spinta verso la “sicurezza
militarizzata”. In un tempo in cui gli equilibri mondiali appaiono più che mai
incerti e la guerra continua ad essere utilizzata come strumento per disegnarne
di nuovi, mentre si estendono i regimi autoritari e repressivi e aumenta
esponenzialmente la violenza, occorre puntare tutto sulla cooperazione
internazionale e sulla restituzione di fiducia nelle capacità di mediazione
delle istituzioni internazionali. Disinvestire da operazioni militari come
Frontex, che prosciugano le risorse e stanziare i fondi per garantire viaggio e
accoglienza sicura e dignitosa ai/alle migranti. In particolare guardando
all’area del Mediterraneo, diventato un mare di morte per chi fugge da guerre e
povertà, bisognerebbe scegliere la strada della riduzione drastica della
produzione e commercio di armi, spostando le risorse su settori di interesse
sociale –
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