UN “SI” CHE VIENE DA LONTANO

Italo Di Sabato
La vittoria del Si al referendum è il frutto di una campagna di opinione che dura oramai da decenni. Campagna di opinione che ha preso il via da una serie di articoli pubblicati sul Corriere della Sera da due giornalisti di punta Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che sono poi diventati il libro “La casta”. Libro trasformato in breve dall’establishment in una bibbia. Un libro entrato non solo nel dibattito politico, ma anche nel costume, nella letteratura, nel modo di parlare, e quindi di pensare, di ognuno di noi. Libro che ha contribuito non poco alla prepotente affermazione del Movimento Cinque Stelle. Grillo ha da subito cavalcato l’onda con un intervista ai due autori sul suo blog e la parola casta è entrata nel vocabolario grillino. “Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”, recita l’inno del Movimento 5 stelle. A maggio del 2007 esce il libro ed a settembre si tiene il primo Vaffa day Da quel momento la marea “anticasta” si è trasformata in uno tsunami. Da allora in rete e nei social network, ma anche sui quotidiani a grande tiratura, nei telegiornali di Rai e Mediaset, è un continuo attacco. Ai giornalisti Stella e Rizzo si sono aggiunti Travaglio, Giordano, Giletti e molti altri, persino la Fiat (azienda che ha drenato miliardi su miliardi alle casse dello Stato) nella pubblicità del 2004 in uno spot con gli attori Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu ammiccava esplicitamente al rancore verso i politici. Ma la campagna “anti casta” è servito soprattutto al pensiero neoliberista per “criminalizzare” la spesa pubblica nel suo complesso. Ed ecco spuntare la definizione di “boiardi di stato”, la ricerca e l’enfatizzazione dei casi particolari, che comunque esistono ed esisteranno sempre, facendoli passare per endemici, a seminare l’idea che la politica, di ogni schieramento e tendenza, è ormai del tutto inefficiente. Deve essere sostituita da chi le cose le ‘sa fare’, cioè gli imprenditori, i manager, i tecnici. Ed ecco che coloro che fanno parte della vera casta si trasformano in censori, memorabile in questo senso l’annuncio a pagamento sul Corriere di uno dei suoi editori di maggior spicco, Diego Della Valle: “Politici ora basta”. Questo il severo incipit: “Lo spettacolo indecente e irresponsabile che molti di voi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda la buona parte degli appartenenti a tutti gli schieramenti politici”. Un tsunami anticasta usato dalla vera casta per far arretrare la politica, delegittimandola, facendo trionfare quello che viene definito il mercato, e che in realtà è lo strumento per far arricchire sempre di più i soliti noti. Einaudi diceva che il mercato non è anonimo, ha sempre nome e cognome e, spesso, anche il soprannome. Ed ecco spiegare i tagli alla spesa sociosanitaria, all’istruzione, al welfare e l’avvio di una lunga serie di privatizzazioni. Uno, ma non unico, esempio del trionfale avanzare della speculazione. Un offensiva che ha portato, nel corso degli anni, a far pensare a milioni di italiani che tutti coloro che ricoprono una carica elettiva fanno parte della Casta e che la Casta è uno sperpero di denaro pubblico. E quindi, dopo aver messo alla gogna non solo i parlamentari, ma anche i consiglieri regionali, provinciali, comunali, quasi che bisognasse vergognarsi di essere stati eletti e sentirsi accusati di “vivere sulle spalle del popolo”, si è arrivati ad abolire il voto popolare per il rinnovo dei consigli provinciali, ridurre il numero di dei consiglieri regionali, provinciali, comunali. Ed è in questo clima ultradecennale che si è arrivati al referendum costituzionale del taglio del numero dei parlamentari. Il 70% degli elettori ha votato Si ai tagli con la convinzione che deputati e senatori sono troppi, che è un lusso che non ci possiamo più permettere e che forse bisogna agire subito sul monocameralismo magari con poche decine di rappresentanti, e poi sarà un bel risparmio abolire anche quella (...tanto nel “parlamento” si fanno solo chiacchiere...) e affidare tutto il potere al governo, che basta e avanza! Che la virulenta carica antiparlamentare fosse il motore trainante del “taglio” dei deputati e dei senatori era, in effetti, lampante. Solo chi ha chiuso volontariamente gli occhi ha potuto non vederla. Non a caso a quarantott’ore dalla vittoria del Sì, è arrivata da Beppe Grillo l’interpretazione autentica del voto referendario. Altro che ridurre per rilanciare il Parlamento, come sostenuto dai suoi compagni di strada culturalmente più consapevoli. L’esatto contrario: “Non credo più in una forma di rappresentanza parlamentare, ma credo nella democrazia diretta fatta dai cittadini attraverso i referendum”. (Beppe Grillo diretta facebook 23 settembre 2020) La vera Casta (cioè i gruppi economici e finanziari – proprietari anche di quotidiani e televisioni -che non hanno bisogno di passare dalla prova elettorale per esercitare il proprio potere) ha avuto e continuerà ad avere tutto l’interesse a favorire questo tsunami: meno deputati significa meno controllo, e sarà più facile comprare i pochi rimasti che saranno emanazione diretta dei partiti di governo e non più rappresentanti del popolo eletti nel territorio, come voleva la Costituzione. L’operazione, pianificata dalla P2 di Licio Gelli, di svuotare il parlamento delle sue prerogative di rappresentanza popolare e controllo sull’esecutivo, dopo essere passata dalla liquidazione del sistema proporzionale al presidenzialismo di fatto, si sta concludendo con la spallata dell’anti-casta. Ma è anche vero che la retorica anti Casta è dilagata soprattutto di pari passo con l’incedere della crisi sociale ed economica che ha colpito milioni di persone e la denuncia delle malefatte della “Casta” in questi anni è servita solo ad aggregare masse di individui abbandonati a sé stessi attorno al rancore e alla frustrazione. Non ha prodotto forme di solidarietà, sperimentazione di alternativa o lotte in grado di rompere la frammentazione. Si è concretizzata sempre in lamento sguaiato e generico contro “i politici”, alzando cortine fumogene per nascondere i rapporti sociali, la distribuzione della ricchezza, le relazioni di potere. Una reazione, o meglio tante forme diverse di reazione, unificate dal fatto di essere agite dagli inclusi che improvvisamente si trovano, o si sentono, emarginati, declassati, privati di status, resi “penultimi”. Ceto medio proletarizzato, si sarebbe detto una volta. Al di là delle definizioni, di quello si tratta. Di una rivolta di chi si trova, in ragione della crisi economica e di una globalizzazione governata – o, meglio, dominata – dai poteri finanziari e dalle corporation, sul crinale scivoloso tra il cadere fuori e il rimanere dentro. E che di questa precarietà fa colpa alle “caste”, ma che alla fine confligge e si sfoga su chi sta un gradino più sotto del proprio, gli ultimi della fila. L’indignazione rancorosa rappresenta il gradino più infimo della volontà di potenza, ed è pertanto il sentimento più adatto a esprimere (e a lasciar sfogare in forma innocua) la rabbia dei senza potere. L’apparato politico-mediatico si premura di rendere produttivo questo sentimento a suo favore, dirottandolo su bersagli mistificati e secondari, e in modo tale da veicolare il messaggio per cui questi bersagli possono essere efficacemente sconfitti e debellati solo con il concorso autoritario di quelle istituzioni responsabili del disagio e dell’impoverimento generalizzato. “Siamo davanti a un classico leitmotiv del populismo di destra, già contrassegno in Francia del poujadismo, una delle radici del Front National. Ma oggi la propaganda contro la “casta”, tipica di Grillo e dell’estrema destra, trova una sponda nella polemica contro le élite e gli intellettuali, che sarebbero responsabili di politiche anti-popolari, “cosmopolitiche” e contrarie agli interessi nazionali” (Alessandro Dal Lago, Populismo digitale – La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina editore, 2017). Questa rivolta e la retorica anticasta, se inizialmente ai tempi di Tangentopoli erano abilmente strumentalizzate da imprenditori politico-morali, al tempo di Internet e dei social network diventano la colonna sonora e un tratto unificante di quel ceto declassato e, perciò, rabbioso che in precedenza era stato invece, per lo più, disciplinato sostenitore di quelle stesse “caste” da cui ora si sente tradito e abbandonato. Si tratta ormai di una vera e propria “voragine sociale”, dalle proporzioni che sfuggono ai più, ma che vengono certificate persino dai cantori di questa globalizzazione, come il McKinsey Global Institute, che nel Rapporto Poorer than their parents? (del luglio 2016)scrive: “Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide della piramide […]. Privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risentimento e al rancore”. In 25 Stati delle economie avanzate il 65-70% dei cittadini tra il 2005 e il 2017 ha visto il proprio reddito appiattirsi o decrescere: corrispondono a 540-580 milioni di persone. Nel decennio precedente, tra il 1993 e il 2004 erano stati solo il 2%, 10 milioni di persone. Una moltitudine di declassati e impoveriti, mutanti della postdemocrazia, che ora costituiscono la base di massa globale dei populismi, laddove questi rappresentano uno stato d’animo condannato al rancore e incanalato verso le diverse forme di razzismo. Una “forma informe” della protesta, senza più alternative e obiettivi, di masse di arrabbiati che si autopercepiscono come traditi, poiché non rappresentati dalle tradizionali culture politiche, incapaci o disinteressate a riflettere su di loro, sulla loro condizione e sulle cause della stessa. Facili prede delle destre populiste e sovraniste Accade così che questa massa di perdenti, dopo che da tempo la lotta di classe si esercita solo dall’alto verso e contro il basso, non sappia fare altro che rivolgersi a vincenti che sappiano parlare la loro lingua e rappresentare la loro rabbia, pur dall’alto della piramide, di cui in effetti non desiderano il crollo ma semmai trovarvi un posto. Purché sappiano gridare “prima gli italiani”, remunerando almeno psicologicamente quanti hanno dolorosamente scoperto sulla propria pelle che l’ascensore sociale dalla fine del Novecento viaggia solo in discesa e come sia superfluo e ipocrita il punto interrogativo del titolo del Rapporto McKinsey. In questo quadro l’Italia è il Paese messo peggio, quello che meno ha saputo affrontare il salto d’epoca della fine del ciclo fordista. Sempre lo studio McKinsey ci dice che l’impoverimento nel nostro Paese ha toccato in qual che misura il 97% delle famiglie, a fronte dell’81% statunitense, del 70% del Regno Unito, del 63% francese, del 20% svedese. Questa mappatura delle vittime della crisi, dei perdenti della globalizzazione, dei declassati, si sovrappone esattamente a quella dei fenomeni politici classificati come populisti. Un territorio sempre più vasto segnato da diseguaglianze, vecchie e nuove, dove sono tracciate linee di demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori, ma anche tra “noi” e “loro”. Chi abita in prossimità di quell’affollato confine ha solo due possibilità: o conoscere e frequentare ambo i lati, aprendo e aprendosi al nuovo e al diverso, costruendo ponti per facilitare conoscenza e reciprocità, alleanze per una comune emancipazione e medesime rivendicazioni; oppure rinserrarsi, innalzando muri e difendendoli armi alla mano. Cosa stia succedendo, sia a livello dei decisori politici sia a livello sociale, è evidente e generalizzato: barriere sempre più alte, frontiere sempre più chiuse. Quindi tutti i teorici e promotori dell’anti-casta si sono ben guardati nel dire che i costi della politica sono solo la punta di un iceberg che nasconde altri e ben più grandi costi “indiretti” che la collettività deve sobbarcarsi in aggiunta. Penso alla corruzione legale – se così posso chiamarla – che il sistema delle imprese mette in atto attraverso i suoi apparati di pressione lobbistica ed elettorale. Ho attinto qua e là da diverse fonti (Peter Bares, Capitalismo 3.0, Loretta Napoleoni e Noam Chomsky in vari pezzi pubblicati su “Internazionale”, Andrea Baranes dal sito www.sbilanciamoci.info, Matteo Cavallito sulla rivista della Banca Etica “Valori”, da il Sole-24 Ore, Altreconomia e da varie agenzie stampa) e ne viene fuori un quadro spaventoso per la credibilità della democrazia rappresentativa a partire dal “modello” americano, rigidamente bipolare e con “scelta” nominale dei candidati.

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