La Ciabbotta
di Pasquale Di Lena
La ciabbotta a me piace scriverla con la doppia lettera b perché rende subito, equale bene, la sua finalità, quella di riempire, saziare, dare spazio al buon gusto, principalmente d’estate.La ciabbotta mi riporta all’orto (uorte), quello familiare di un tempo, e alla cucina (cuecine). Una stanza con il camino e il focolare; le fornacelle (fernacèlle) e il ventaglio (uantaje) fatto con le penne di gallina o di tacchino (gallenacce); il pezzo di marmo; la tavola con il piano che si apriva e diventava il doppio; l’orcio grande (a candre) con sopra l’anfora in rame (a tine) e il misurino (a mèzze) che serviva per attingere e bere; le sedie di paglia (i sègge); la madia (a fazzatòre). In bella mostra gli utensili ( s’tremiente) in ferro bianco, alluminio, rame, vimini, canne o paglia.
E, poi, l’attesa e l’acquolina in bocca per i profumi che, fino a 60anni fa, si rincorrevano dentro il piccolo spazio, la cucina, e trovavano sfogo in un cappa collegata al camino; le forchettate e le cucchiate che si moltiplicavano velocemente nonostante l’invito ripetuto a mangiare piano.
Sempre la ciabbotta mi ricorda anche la cristalliera (a cres’talliere), con una serie di tazze e tazzine, bicchieri e bicchierini: il ripostiglio (u s’tipe) dove c’era un po’ di tutto; la credenza (a credènze), diviso in due, sopra le provviste (marmellate, sottoli e sottoaceti) riservate agli ospiti e sotto le pagnotte di pane, quelle enorme ruote da cinque chili che dovevano durare almeno una settimana e che quando arrivavano dal forno, ancora calde, riempivano la cucina di un profumo che, per me, ancora oggi non ha uguale. Da svenimento.
La mia ciabbotta parte dall’utilizzo di una padella (a fressòre) con il fondo coperto di olio “Gentile di Larino”, che ha profumo delicato ma persistente e che si sente e si gusta poi nel piatto; strati di rotelle di cipolla fresca; melanzane (melegname) coperte di rametti di sedano (lacce) tagliati a pezzetti; zucchine (checocce) e foglioline di mentuccia (nepetèlle) sparse sopra; patate (patane) e prezzemolo (petresinnele); pomodoro (pemmedόre) e basilico (vasanecόle). Una volta salata e, subito dopo, l’aggiunta di origano (pelieie), sventolato su questo monte profumato che ricorda il tricolore della nostra bandiera, come a significare un’identità.
Un primo tempo di cottura senza il coperchio (u chepierchie) e senza che il monte delle bontà dell’orto venga toccato, poi, partendo dal basso, dopo aver staccato la cipolla dal fondo della padella, girare dolcemente per mescolare e amalgamare i diversi ortaggi, e, subito dopo, coprire preoccupandosi, però, di lasciare un piccolo spazio dal quale far uscire, con il vapore, fili di odori che via s’intrecciano per diventare uno solo, quello definitivo, che si spande in tutta la casa.
È il momento in cui lo stomaco (u s’tommeche) comincia a sentire un languore e si carica di paziente attesa.
Per
renderlo un piatto unico, completo, si aggiungono uova poco prima di togliere
la padella dal fuoco.
Leggendo
il libro “Ricettario di Luisa Agostinelli”, presentato a Montorio il giorno
dopo Ferragosto, ho visto che la sua ricetta è più semplice: “Si mette l’olio
in un tegame, tutto il fondo, vi si mette un po’ di sale e si fa uno strato di
pomodori con la pelle e semenze, fatti a pezzi, dopo uno strato di peperoni ben puliti e fatti a strisce. In
ultimo origano, aglio, sale e un altro po’ di aglio. Dopo cotti, si versa sul
pane. Volendo si può mettere uno strato di patate”.
Un”
volendo” che mi rincuora, visto che ho aggiunto altro, e, visto anche, che la
cucina per me è fantasia, stato d’animo, desiderio, amore, passione, cioè
voglia di esprimere ciò che uno ha e, soprattutto, sa.
Un
piatto, la ciabbotta, che meglio rappresenta uno stile di vita, la Dieta
Mediterranea, che tanto appartiene a noi
molisani, abitanti di una terra generosa di biodiversità. È la biodiversità la
preziosità che anima i tanti paesaggi e che è la ragione prima di una cucina
ricca di proposte e tutte all’insegna del “poco ma buono”.
Una preziosità
che porta il Molise, nonostante la superficie limitata del suo territorio
(4.430 Km²), a salire
più di uno scalino del ricco patrimonio di prodotti tipici, legati alla
tradizione.
Ben 159
quelli molisani dei 5mila riconosciuti
tali da almeno 25anni, che danno al
Paese un altro primato dopo quello dei 405 vini a d.o. (75 Docg e 330 Doc) e delle 304 eccellenza
Dop, Igp e Stg.
Se è vero, com’è vero, che la qualità è nel territorio e il cibo è un atto agricolo, cioè l’attività che più di ogni altra ha bisogno di questo bene primario e del suo suolo fertile, la sua salvaguardia e tutela è la priorità delle priorità, se vogliamo avere la certezza del cibo, cioè della prima energia vitale di cui noi umani e il resto del mondo animale abbiamo assoluto bisogno.
In questo senso dire NO a tutto ciò che ruba il suolo per altri fini è, non solo un dovere, ma una necessità se vogliamo vivere il sogno del domani.
Vado subito a mangiare
RispondiEliminaChe bello piatto, si sente il gusto i profumi
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