Terra bruciata nelle politiche per lo sviluppo economico
di
Umberto Berardo
Disegno di Ro Marcenaro |
Esagerando nell'uso degli
eufemismi, gli analisti parlano di crisi o di fragilità, ma la verità è che
l'economia italiana, soprattutto nel settore industriale, vede uno sfascio drammatico.
Secondo i dati di Confindustria
il fatturato tendenziale annuo è in calo del 7,5% sul mercato interno e del 7%
su quello estero.
Gli stessi ordinativi, se si
escludono quelli positivi per macchinari e attrezzature, sono in pesante
diminuzione fino a toccare il -21,4% nel settore delle apparecchiature
elettriche e a superare il -20% in quello automobilistico mentre si accentua il
calo nel settore tessile, elettronico e farmaceutico.
Al Ministero dello Sviluppo
Economico ci sono ben 162 tavoli di crisi aziendali aperte con centottantamila
posti di lavoro in gioco.
Una crisi endemica e persistente non riguarda
solo aziende come Alitalia, Almaviva, Alcoa o Ilva, ma un vasto bacino d'imprese
che galleggiano ancora, ma rischiano di affondare nel mare di una congiuntura
estremamente sfavorevole.
Un tale tracollo ha ovviamente
una geografia che vede penalizzate in Italia fortemente, manco a dirlo,
soprattutto le regioni meridionali dove il deserto industriale avanza senza la
capacità non solo di studiarne seriamente le cause, ma neppure di vedere le
soluzioni al problema.
Ci sono territori dove la
recessione economica ha determinato un calo fortissimo del dato occupazionale e
sta spingendo nuovamente i giovani a una nuova e drammatica ondata emigratoria.
La crescita economica del nostro
Paese, inchiodata da anni di poco sopra lo zero, davvero non dà spazio a grandi
speranze.
Per trovare una via di uscita
occorre anzitutto analizzare le cause del fenomeno.
Certo l'integrazione economica e
valutaria europea, il Fiscal compact e il regime dei cambi fissi hanno favorito
la Germania e penalizzato l'Italia con un freno nelle esportazioni che ha
portato le nostre industrie a una produzione in subappalto per le filiere
tedesche oggi anch'esse in crisi per i dazi americani ma soprattutto per la
concorrenza dei Paesi emergenti dell'Asia.
Questo rallentamento della
produzione in Germania crea ulteriori problemi che possono avere un effetto
domino per l'intera Europa.
Il mercato interno italiano non
assorbe che in minima parte la produzione, mentre quello estero non traina più.
L'accumulazione capitalistica di
stampo neoliberista ha tolto sempre più investimenti nel settore della
produzione economica reale per spostare i risparmi nelle rendite finanziarie.
Molti imprenditori senza alcun
ritegno hanno preferito un guadagno facile in un'economia di carta favorita da
classi dirigenti al servizio dei grandi gruppi plutocratici o sono migrati dal
mondo produttivo a quello dei servizi.
Diverse imprese italiane così
sono finite in mano a investitori stranieri che ne hanno acquistato il marchio
per stroncare la concorrenza finendo poi per diminuire sistematicamente la
spesa in ricerca, tecnologia e sviluppo e per delocalizzare la produzione
soprattutto nei Paesi dell'est.
Sono tutti paradigmi neoliberisti
che per anni hanno imposto le logiche delle privatizzazioni anche in settori
trainanti come la fabbricazione di acciaio magnetico a Terni, dove le
acciaierie furono cedute nel 1994 alla Thyssen
Krupp, e a Taranto, dove il volume di produzione riguarda materiale
lungo per l'edilizia e piano per l'industria manifatturiera pesante, con l'Ilva
data prima ai Riva e successivamente ad ArcelorMittal.
Abbiamo oggi così la
dimostrazione lampante di quanto sia rapace, crudele e selvaggio un capitalismo
che nella fase più buia della sua storia non si fa alcun problema di migliaia
di lavoratori a rischio disoccupazione pur di difendere il massimo del
profitto.
Le questioni sono complesse ed è
difficile progettare il futuro in un Paese dove ormai viviamo una campagna
elettorale permanente piuttosto che occuparci dei problemi legati alla vita dei
cittadini.
Se in questa direzione la politica si dimostra incapace di difendere
gli interessi fondamentali della collettività e segue le logiche di un mondo
finanziario e imprenditoriale in gran parte sempre più lontano dai principi dell'etica
e della giustizia sociale, certamente occorrerà che si ridisegni la struttura
del sistema politico ed economico.
L'attività produttiva nel settore
secondario paga certamente la dimensione medio - piccola delle sue aziende, le
difficoltà nella gestione manageriale, la debolezza d'innovazione tecnologica e l'assenza di una
strategia di politica industriale autonoma che di fatto l'ha relegata a un
ruolo periferico rispetto agli Stati dell'Europa centro-settentrionale.
La globalizzazione dell'economia con
una concorrenza spietata di produzione in nero o con la negazione dei diritti
fondamentali dei lavoratori soprattutto in Paesi dell'Asia, le politiche di
austerità in Europa e il regime dei cambi fissi hanno contratto la nostra base
produttiva costringendo molte aziende a diminuire il costo del lavoro per
evitare delocalizzazioni o chiusure.
Per di più la politica ha
sottratto agli investimenti tanti miliardi persi in corruzione nella
realizzazione di talune opere pubbliche o buttati negli sprechi e nei
privilegi.
Di fronte a tale situazione è del
tutto evidente che continuare a mettere toppe a un sistema in crisi serve a
poco; al contrario l'Italia ha bisogno di ripensare una pianificazione dello sviluppo
che finora è stata davvero inefficiente.
Occorre pertanto ridurre il
debito pubblico e ridiscutere non solo il Fiscal Compact, ma anche l'art. 107
che impedisce aiuti di Stato alle aziende e gli stessi strumenti di politica
monetaria affidati completamente alla BCE.
È necessario poi che l'Europa riesca
a costruire davvero quel mercato unico continentale che oggi ancora non c'è e
che solo può aiutare i suoi Stati a sviluppare il sistema produttivo nel
settore primario, secondario e terziario per vincere la sfida con i Paesi degli
altri continenti.
Per uscire allora dalla terra
bruciata nelle politiche per lo sviluppo economico bisogna riaffermare con
forza il diritto dell'Italia ad un ruolo attivo nell'intervento pubblico
ritornando ai principi del sostegno alle aziende, ma anche, dove occorre, ai
concetti della nazionalizzazione e della partecipazione statale in settori strategici
dell'economia.
La costruzione di
un'imprenditorialità autoctona efficiente, preparata, ma soprattutto dotata di
grande umanità, di cui pure abbiamo qualche ottimo esempio, dev'essere un
obbligo immediato per evitare che investitori esterni senza scrupoli
distruggano quanto siamo riusciti a costruire con anni di duro lavoro.
Se, come ci dicono i dati, i
nostri prodotti più richiesti sono quelli alimentari, è chiaro che bisogna
sostenere con forza un'agricoltura biologica di eccellenza.
Si deve poi superare la caduta
degli investimenti migliorando infrastrutture, ricerca, collegamento tra
università e mondo del lavoro, managerialità.
Fondamentale è la riduzione della
tassazione come dei costi di gestione, ma anche il miglioramento delle stesse
fonti energetiche perché le imprese diventino competitive ed ecosostenibili.
Studiare ancora meccanismi di sostegno
economico per saldare le industrie al territorio può aiutare a limitare le
delocalizzazioni.
Il reddito di cittadinanza, com'era
prevedibile, non ha sviluppato la domanda interna; dunque si deve pensare
necessariamente a un lavoro di cittadinanza con un'estensione dell'occupazione
in settori trainanti dell'economia quali l'agricoltura e la zootecnia
imboccando la strada dell'aggiornamento qualitativo dei prodotti.
Abbiamo bisogno anche di una più
innovativa digitalizzazione della produzione industriale per vincere la sfida
con le economie emergenti soprattutto in settori come quello delle
comunicazioni nei quali siamo in grande difficoltà.
Per concludere non possiamo
dimenticare che al centro dell'organizzazione economica non può esserci il
profitto ma la dignità della persona umana.
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