Il Cibo al tempo del dio denaro



In anteprima questo mio articolo che uscirà sul numero di luglio della bella rivista "Oinos-ViverediVino"  

Nell’era della facile spettacolarizzazione non poteva mancare quella del cibo. Non c’è, ormai, un’ora del giorno e della notte, che non si parli, nelle televisioni, di questo elemento vitale per noi essere umani e gli stessi animali, in cucina o a tavola.  

In cucina, o meglio, intorno ad una cucina in acciaio inossidabile, per dare a noi spettatori la sensazione, se non la certezza, di poter comunque cucinare, anche se non siamo in grado di percepire i profumi e i sapori che il cibo, crudo o cotto, esprime, ma solo i colori. A tavola, o meglio, intorno a una tavola, dove altri mangiano per noi e si possono permettere di giudicare e valutare, come a farci credere che siamo anche noi potenziali redattori di una delle tante guide culinarie in circolazione o, anche, di una nostra guida personalizzata, anche se del tutto virtuale. 
Comunque – fatto importante - si parla del cibo, anche se è un modo come un altro per vivere la moda degli effetti, cioè delle conseguenze, ignorandone le ragioni, le cause, soprattutto per nascondere verità, che, nel caso del cibo, sono tutte raccolte nella terra e nel mare, cioè i luoghi che producono il cibo che mangiamo e, quali fonti di vita, ci appartengono da tempo lontano. 
Verità che ci parlano di foreste, fondamentali contenitori di biodiversità e sostenitori del clima, sacrificate a vantaggio di coltivazioni (soia soprattutto) essenziali per i grandi allevamenti animali e la produzione della carne, con conseguenze disastrose in quanto a inquinamento di estensioni incredibili di terreno, falde acquifere e mari, e. anche, riguardo ai cambiamenti climatici in atto, con la emissione di quantità enormi di quell’anidride carbonica che sta sconvolgendo il globo e facendo impazzire, con la terra, anche noi.
C’è in questo modo di produrre e di trasformare il cibo, proprio di agricolture e allevamenti industrializzati, la verità che immense superfici di terreno fertile sono già sterili e, altre che, nell’arco di uno o due decenni, lo diventeranno per un apporto, in modo esagerato, dell’uso dei prodotti chimici che non sono compatibili con gli esseri che riempiono di vita il terreno e che l’apporto della chimica distrugge. 
Viene da pensare ai diecimila anni che ci separano dalla nascita dell’agricoltura e al suo rapporto con l’uomo coltivatore che, sin dall’inizio, si rende conto che il terreno è un elemento ricco di vita, tanto da considerare la necessità di dare ad esso un periodo di riposo (l’anno sabbatico degli ebrei e il maggese dei romani, ancora diffuso fino a qualche anno fa), necessario perché possa ricaricarsi di quelle energie vitali essenziali per la quantità e, ancor più, per la qualità delle produzioni. 
Un modo di pensare e di fare diametralmente opposti: quello che ha avuto ed ha come punto di riferimento la sacralità della terra e il valore del rispetto, in primo luogo quello del tempo - con la sola spettacolarità riferita alle stagioni, allo splendore della natura – che è passato, presente, ma anche domani, cioè eredità da dare alle nuove generazioni; quello all’insegna del dio denaro, che non si preoccupa del domani, ma solo del profitto per il profitto, anche quando è distruzione di risorse vitali  fondamentali, come la foresta e il terreno fertile, il mare e i suoi fondali. 
Non c’è, in un mondo abitato da sette e più miliardi di persone, sicurezza alimentare se non viene affermata la sua “sovranità”, cioè “il diritto dei popoli (dichiarazione di Nyéléni in Mali – Forum Sovranità Alimentare, 2007) ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo… Essa difende gli interessi e l’integrazione delle generazioni future. Ci offre una strategia per resistere e smantellare il commercio neoliberale e il regime alimentare attuale”.
 Oggi, quando quasi un miliardo di persone nel mondo, soprattutto bambini, non ha niente da mangiare, e, parlando dell’Italia del 2017, ben 2,7 persone non hanno avuto cibo sufficiente per nutrirsi, diventa difficile parlare di “Sicurezza alimentare”. E se questa è la realtà c’è da chiedersi cosa succederà nei prossimi tre decenni quando  il globo sarà abitato da 9,8 miliardi di persone e non 9 miliardi, com’era stato previsto prima di quest’ultimo aggiornamento Onu di qualche giorno fa. Una realtà che, nell’era della spettacolarizzazione del cibo, sfugge alla stragrande maggioranza delle persone, soprattutto ai governi che dovrebbero avere il tema del cibo al primo punto all’ordine del giorno, anche per vedere come porre un freno allo spreco.
Di fronte al bisogno di cibo e alle sue conseguenze - a volte anche tragiche -  se fa sorridere la pretesa dei vegani di non mangiar carne, c’è da dire che fa rabbia lo spreco, non solo del cibo, ma anche della fertilità dei suoli e di superfici enormi di territorio, cioè di quel bene comune che è l’unico tesoro che l’uomo ha per progettare un domani diverso, fondamentale per le nuove generazioni.
Se il cibo è agricoltura e l’agricoltura è anche paesaggio, ambiente, storia, cultura, tradizione, cioè l’asse intorno al quale gira un intero territorio, si può ben capire l’imperdonabile errore, culturale e politico, di aver posto questa attività, oggi più che mai primaria,  ai margini di uno sviluppo, che, non a caso, dopo pochi decenni, ha mostrato il suo totale fallimento con la crisi del 2007/2008. 
Ancor più in un paese come l’Italia circondato dal mare e composto di mille e mille territori, soprattutto montani e collinari, che possono fare a meno della chimica e delle macchine, ma non dell’uomo e degli animali. Quest’ultimi, se considerati e rispettati per il ruolo che svolgono,  sono i soli capaci di assicurare la sostenibilità e, con essa, un territorio sano, espressione di un cibo all’insegna della qualità e della diversità, fonte di benessere e salute.
pasqualedilena@gmail.com








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