L'autodeterminazione dei popoli
di
Umberto Berardo
Sappiamo
tutti che la forma organizzativa dei popoli nel corso della civiltà umana è
stata molto varia ed articolata in relazione ai territori e nelle diverse
epoche.
Abbiamo
avuto il nomadismo, piccole comunità autogestite, città-stato, regni, imperi,
stati dittatoriali e democratici, unioni sovranazionali.
Dentro
tali strutture ovviamente le difficoltà maggiori per i diritti umani sono
venute soprattutto dalla gestione totalitaria del potere, dalle guerre e dal
colonialismo.
La
configurazione degli attuali Stati nel mondo, soprattutto quando non è stata
una scelta autonoma, ma determinata da trattati postbellici o peggio ancora da
decisioni verticistiche del potere o da guerre di occupazione, ha creato spesso
tensioni esterne e frizioni interne che tuttora rendono difficile la convivenza
dei cittadini.
La Carta delle Nazioni Unite al Capitolo I, dedicato ai fini e principi
dell'Organizzazione, articolo 1, paragrafo 2, individua come fine dell'ONU
quello di
"Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul
rispetto e sul principio dell'eguaglianza dei diritti e
dell'auto-determinazione dei popoli...".
Il diritto all'autodeterminazione è stato successivamente sancito con il
"Patto internazionale sui diritti civili e politici" del 1966 , con una Sentenza della Corte Suprema del Canada dello stesso
anno e con il Patto di Helsinki del 1975.
Intanto è difficile parlare di autodeterminazione di un
popolo se questo non è riconosciuto come soggettività giuridica non essendoci in
tal senso nessuna norma chiara a livello di diritto internazionale.
Tra l'altro il principio di autodecisione negli atti sopra
citati sembra avere un campo di applicazione limitato ad etnie cui sono negati
diritti fondamentali, ex colonie e popoli soggetti a regimi razzisti o a dominio
militare straniero.
In molte circostanze nel riconoscimento del diritto
all'autodeterminazione si è giocato sull'ambiguità per cui talora si è fatto
ricorso a forme di consultazione delle popolazioni, come nei plebisciti tenuti nei
territori occupati dal Piemonte o nella Prussia orientale, ad accordi pacifici
tra le parti in causa, come tra Cechi e Slovacchi, mentre a volte le decisioni
sono state di vertice e sono passate sulla testa di popolazioni che, pur di
diversa nazionalità, sono state inserite in Stati di cui non si sono sentite
parte, come nel caso dei Tirolesi o degli Istriani.
Dopo la seconda guerra mondiale si è tentato di articolare
politicamente la pacifica convivenza di popoli all'interno degli Stati e nelle
relazioni internazionali.
Si sono avuti, invece, lo sappiamo bene, casi di
indipendentismo nella penisola balcanica sollevati ad arte per puri motivi di
neocolonialismo commerciale e finanziario che hanno tra l'altro determinato
vere e proprie carneficine.
In questi giorni si discute molto di autodeterminazione in
relazioni agli eventi di Catalogna in cui una parte della popolazione ha
organizzato domenica 1° ottobre un referendum per acquisire l'indipendenza
dalla Spagna.
Intanto a nostro avviso è indiscutibile che una popolazione
abbia tutto il diritto di rivendicare la propria indipendenza nel caso in cui
lo Stato nel quale è inserita non ne garantisca i diritti fondamentali; ci sono
però circostanze in cui tale condizione si reclama per motivi di carattere
economico legati a forme di egoismo soggettivo o di gruppo derivanti da errate
posizioni concernenti i sistemi fiscali ed alla redistribuzione delle entrate
relative.
In Europa tale seconda ipotesi si sta diffondendo a macchia
d'olio e rischia di creare problemi seri alla convivenza.
Ne abbiamo esempi anche in Italia dove la Lega gioca
sull'indeterminatezza dei concetti di autonomia ed indipendenza rivendicando
una maggiore redistribuzione locale delle entrate fiscali sui territori che ne
garantiscono un maggiore gettito.
Il 22 ottobre si terrà in Veneto e Lombardia un referendum
consultivo per richiedere in tal senso forme di autonomia innovative.
A chi imposta tali forme di rivendicazioni occorrerebbe
ricordare che le aziende con sede sociale in una regione si sono costituite lì
grazie ai proventi di uno Stato che spesso ha profuso investimenti pubblici
guardando agli interessi generali dell'intera popolazione nazionale e non a
quella delle singole regioni; sarebbe necessario rammentare anche che le
imprese di una regione riescono ad avere profitti grazie alla solidarietà negli
investimenti, nell'impegno lavorativo e nelle vendite che derivano da tutta la
comunità delle altre regioni.
Tra l'altro sottolineiamo come l'art. 116 della Costituzione
Italiana prevede che "forme e condizioni particolari di autonomia"
possono essere attribuite alle Regioni solo con legge dello Stato.
Per tornare al tema generale dell'autodeterminazione sul
piano strettamente giuridico desideriamo ricordare come solo la carta
costituzionale etiopica prevede la possibilità di una secessione unilaterale di
parti della popolazione; altrove, come in Gran Bretagna, è possibile attraverso
un referendum riconosciuto dall'interezza dello Stato, mentre le Costituzioni
spagnola e italiana non consentono nulla di simile, ma solo forme di autonomia.
A livello internazionale poi non esiste alcuna norma
obbligante altri Stati all'accettazione di un caso di secessione; una minoranza
può pertanto proclamare anche in modo unilaterale la propria indipendenza, ma
non diventa per ciò stesso uno Stato se non ottiene in tal senso un
riconoscimento esterno soprattutto da comunità sovranazionali.
In aree diverse di uno Stato ci possono anche essere questioni
irrisolte che creano ostacoli alla convivenza nazionale come una maggiore diffusione
della corruzione o dell'illegalità, scarsa cultura dell'iniziativa
imprenditoriale, diversa velocità nei percorsi di sviluppo economico, ma si
tratta di problemi che vanno risolti sul piano culturale e politico e non certo
attraverso secessioni che producono difficoltà enormi alle popolazioni a
livello economico, ma anche nelle relazioni umane e sociali.
Proprio in considerazione di tali risvolti negativi di una
secessione, il titolo all'autodeterminazione viene in genere riconosciuto ove
un gruppo identitario infrastatuale si veda negati diritti umani fondamentali o
quello ad una rappresentanza reale nelle decisioni collettive ed in ogni caso
va contemperato con il diritto di uno stato all'integrità territoriale ed ai
confini riconosciuti.
La mappa dell'indipendentismo in Europa è molto estesa, ma è
certo che non possiamo inseguire la competizione per le risorse che alimenta
talora forme di secessione che creano frammentazioni di cui è difficile capire
il senso e l'evoluzione.
È altrettanto chiaro, a nostro avviso, che l'80,2% dei due
milioni di votanti su 5,4 milioni di aventi diritto come in Catalogna è difficilmente
un dato rappresentativo democratico della reale volontà del popolo interessato.
Vorremmo anche aggiungere che i popoli, oltre a liberarsi dai
limiti amministrativi degli Stati in cui sono inseriti, forse devono cercare
anzitutto un'indipendenza dal potere finanziario che, con i meccanismi perversi
del debito e del fiscal compact propri del più spregiudicato neoliberismo,
rischia di compromettere seriamente la libertà economica e politica dei
cittadini perfino all'interno di istituzioni in cui i concetti di uguaglianza e
di condivisione non riescono a farsi strada.
In un'epoca di globalizzazione e di trasnazionalizzazione, allora,
occorre forse pensare a nuove forme di statualità indipendenti e non armate con processi di federalizzazione
solidaristica al loro interno ed un inserimento nel sistema delle Unioni
Transnazionali e delle Nazioni Unite in cui però va profondamente rivisto il piano
della struttura in una nuova forma di partecipazione democratica paritaria di
tutti i suoi membri.
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