Il granone “Agostinello”, tutto molisano, può, insieme con altre iniziative, rilanciare le aree interne.
L’altro sabato sono andato a S. Giovanni in Galdo per seguire la tre
giorni della Condotta Slow food “Galdina”, nelle mani di Michela Budino e di
Nicola Del Vecchio, impegnati , con il sindaco della bella cittadina prima
citata e quello di Campodipietra, a rilanciare, con l’agricoltura sostenibile, il
territorio e le attività legate alla promozione, valorizzazione e commercio dei
prodotti agricoli fortemente legati alla tradizione e alla qualità.
Questa mattina, su invito del caro amico di tante avventure,
Michele Tanno (penso al rilancio della Tintilia), sono stato a Matrice, per ascoltare un’idea
progettuale basata sul recupero e la diffusione della coltivazione del mais “Agostinello”, dentro il tempio della
trasformazione dei cereali, il Molino Cofelice. Una realtà che ha sempre più un
ruolo importante da svolgere all’interno di una filiera corta, che vuole parlare
direttamente al consumatore e con esso avviare quel dialogo permanente che
serve per dare quelle risposte sicure,
soprattutto per ciò che riguarda la qualità e la salubrità di prodotti basilari,
quali sono i cereali, con tutte le loro trasformazioni e adattamenti alla
cucina e alla tavola.
Cereali, prima di tutto pane e pasta, cioè il nostro cibo
quotidiano, fondamentale da sempre, insieme con l’olio di oliva, il vino, le
verdure e la frutta, per i popoli del Mediterraneo.
A Matrice, dicevo, all’altezza della stazione ferroviaria, lungo
il braccio Cortile-Centocelle, che raccordava il tratturo Castel di Sangro –
Lucera con quello che da Celano arrivava a Foggia, non lontano da quel luogo
magico segnato dalla stupenda chiesa di Santa Maria della Strada (sec. XII) con
la sua leggenda del re Bove e del masso del diavolo.
Ebbene, quel leggero e piacevole sentore di una bella
rivoluzione in atto, la più pacifica, che avevo sentito grazie alla condotta
slow food Galdine e che coinvolge il territorio più interno del Molise, questa
mattina è diventato un profumo inebriante di voglia di ripartire per non
abbandonare definitivamente il campo (campagna) e, come recita una scritta
sulla parete del molino, fare“un passo indietro per andare avanti”.
Questa volta con un mais tutto nostro l’”Agostinello”, che
si semina a maggio e matura ad agosto per dare all’amante della “tolle”
(pannocchia), quella bollita,il piacere
di sgranare un qualcosa dal delicato sapore ma dal gusto intenso, piacevole o, per
i più esigenti, quella buttata sulla brace o tenuta con un ferro per non
bruciarsi. Che dire poi della pizza di granone “Agostinello” sotto la coppa per
tagliarla a metà (preparata dalle signore Cofelice)) e imbottirla di peperoni
fritti o, volendo, renderla famosa con le verdure (pizz’è foje), un piatto che,
al pari della polenta e altri derivati da questo mais o dalla sua farina.
merita, una volta formulato il disciplinare di produzione del mais “Agostinello”,
il riconoscimento di una indicazione geografica, Dop o Igp.
Altri piatti come la polenta al sugo di pomodoro, preparata
per i partecipanti all’incontro voluto dall’Associazione “Arca Sannita”, che ha
sede a Ferrazzano, mi ha saziato di bontà.
Solo chi ha in mano i Psr e, di questi tempi, anche le
organizzazioni professionali credono alla bontà dei risultati del Psr, una
volta erogati i fondi a disposizione e che, come si sa, finiranno nel 2020.
C’è da dire che questi programmi, come altri finanziamenti
della Ue, hanno reso il coltivatore quello che prendeva da una mano i soldi,
impegnando per una parte anche i suoi, e, con l’altra, passava il tutto all’industria
dei trattori e delle attrezzature, a quelle della chimica e alle banche.
Infatti, con tutti i soldi erogati nessun coltivatore, a differenza dell’industria,
della finanza e delle multinazionali, si è vestito con abiti d’oro. Anzi, dal
2004, l’anno che ha fatto esplodere la crisi dell’agricoltura che ha anticipato
di qualche anno la crisi più generale a dimostrazione di un sistema fallito, con
il coltivatore che ha pagato questa crisi
a caro prezzo, l’abbandono dell’attività, spesso cacciato da espropriazioni per
dare spazio ad altre attività sul proprio terreno, molte delle quali
speculative e fonti di tangenti.
Ecco che ripartire dalla terra - come vogliono fare i
giovani di San Giovanni in Galdo e i sindaci di questo paese e di quello
vicino, Campodipietra; Michele Tanno con l’Arca Sannita; Cofelice e i
coltivatori rimasti - è una necessità se si vogliono creare esempi convincenti
per allargare il campo e coinvolgere altri protagonisti.
Esempi convincenti anche per la politica e i gruppi
dirigenti di questa nostra Regione, che non ancora hanno capito che il loro
domani dipende da una svolta, soprattutto culturale, che è quella di partire
dalle risorse e dai valori del territorio e che solo salvaguardando, tutelando,
utilizzando e valorizzando questo prezioso bene comune, si può tornare a
camminare insieme e affrontare il futuro con la conoscenza e il sogno del
domani.
pasqualedilena@gmail.com
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