NOTA DI NICOLINO CIVITELLA
È stata presentata a Larino la
recentissima pubblicazione curata da Roberto Parisi e Ilaria Zilli, Il Patrimonio Industriale in Molise – Itinerari
di un censimento in corso , Nuova
Prhomos, Città di Castello 2012 – €
20,00
In strumenti & documenti, collana del Crace (Centro ricerche ambiente cultura economia) diretta dal prof. Renato Covino.
Si tratta di un’interessante
indagine sull’archeologia del sistema industriale molisano negli ultimi due
secoli.
In questa sede, accanto ad
una breve recensione, si propongono ulteriori spunti per la lettura del
territorio.
Di Nicolino Civitella
Venerdì
24 gennaio 2013, presso il circolo La Casina Frentana di Larino, Rossano Pazzagli, Ilaria Zilli e
Roberto Parisi, docenti dell’Università del Molise, hanno presentato il libro “Il Patrimonio Industriale in Molise”,
una ricerca sull’archeologia industriale nella nostra regione. Presenti tra i
relatori anche la dott.ssa Virginia De Vito, neolaureata in scienze del
turismo, e il sociologo Berardo Mastrogiuseppe. Coordinatore dei lavori, l’amico
Pasquale di Lena.
Il
volume si articola in una sezione introduttiva, in tre successive parti nelle
quali viene sviluppato il tema oggetto della ricerca, e in una sezione
conclusiva, o d’appendice, che contiene una ricca documentazione fotografica.
La
sezione introduttiva, oltre alla presentazione del lavoro da parte del prof.
Renato Covino, docente presso l’università di Perugia e presidente dell’AIPAI
(Associazione italiana per il patrimonio archeologico e industriale), nonché
responsabile della collana che ospita il volume, contiene anche una nota dei
curatori, prof. Parisi e prof.ssa Zilli.
Nella nota i due docenti presentano la pubblicazione come l’avvio di un
percorso di ricerca proiettato verso ulteriori sviluppi nel settore peso in
esame. Un intendimento questo che è chiaramente reso esplicito nel titolo della
stessa nota: “Itinerari di un censimento in corso”, titolo che compare già in
copertina, a segnalare sin da subito che la pubblicazione rappresenta solo il primo
tassello di un progetto a più ampio respiro. Sempre nella nota, tuttavia, preliminarmente essi si soffermano a sottolineare l’importanza
dell’Archeologia industriale (recentissima disciplina di ricerca) come
strumento di valorizzazione della memoria legata alle attività manifatturiere e
alla loro stretta connessione con il territorio, e sotto questo profilo, dunque, una
disciplina non solo rivolta alla preservazione delle residuali tracce materiali
sul stesso territorio, peraltro utilizzabili in un più ampio contesto di
turismo culturale, ma anche una disciplina utile a ricostruire le trame di un
tessuto produttivo, per poterne coglierne quei fattori fondanti che, oltre a
favorire una più puntuale e approfondita conoscenza della realtà presa in esame,
possono anche fornire indicazioni riguardo a condizionamenti futuri.
Per
le successive tre parti. Nella prima
viene tracciato un articolato profilo dei tratti che hanno connotato in passato
la realtà industriale della regione Molise (tre saggi, rispettivamente di
Ilaria Zilli, Rossano Pazzagli e Roberto Parisi); nella seconda vengono presentate diverse schede sulle industrie
manifatturiere, le industrie idroelettriche e le infrastrutture, (autori vari);
nella terza, infine, Giorgio Palmieri si sofferma su infrastrutture e attività
proto industriali in due centri molisani: Riccia e Sepino.
A
chiudere il volume, come si diceva, un atlante
fatto di una ricca documentazione fotografica su edifici, macchinari e
siti relativi al patrimonio archeologico industriale della regione.
Gli
autori del volume non sfuggono ad un preliminare interrogativo che sorge
spontaneo dinanzi all’argomento oggetto
di ricerca: Ma ha senso parlare di archeologia industriale in una regione la
cui l’attività manifatturiera ha avuto sempre un ruolo minimale, dato il contesto
economico generale ad impronta quasi esclusivamente rurale?
La
risposta è, senza incertezze, affermativa.
L’archeologia
industriale non può far riferimento solo alle dismissioni delle grandi industrie,
poiché l’attività manifatturiera, quale che sia la sua dimensione, lascia comunque
una propria impronta sul territorio, a segnalare gli equilibri che si sono
realizzati negli assetti produttivi, e perciò stesso ogni suo reperto è
comunque portatore di un significato che merita di essere focalizzato e messo a
punto.
È
evidente che in questa ottica la significanza sorge non in relazione
all’oggetto residuale in sé, come potrebbe accadere per la grande dismissione
industriale, quanto piuttosto in relazione al più ampio territorio e a tutte le
attività che in esso si sono realizzate. Un’archeologia dunque che non esamina
l’oggetto della propria ricerca isolandolo dall’ambiente in cui esso ha svolto
la sua funzione produttiva, ma lo esamina, invece, contestualizzandolo. Il che,
ovviamente, sollecita la disciplina in direzione di una operatività a più forte
carattere interdisciplinare.
Ma
entriamo più direttamente nel merito dell’indagine.
Limitandoci
agli ultimi due secoli, ossia da quando la provincia di Molise si è costituita
come entità amministrativa autonoma, si rileva che la realtà industriale molisana ha avuto sempre
una modesta dimensione, si rileva inoltre che essa si è limitata, tranne
rarissime eccezioni, ad operare entro i ristrettissimi limiti dei mercati locali,
ha realizzato prodotti di bassa qualità, è stata generalmente restia alle
innovazioni tecnologiche ed ha avuto un profilo sempre strettamente connesso al
predominante mondo agro-pastorale.
L’ampia
attività pastorale ha alimentato soprattutto
opifici di filatura e tessitura della lana, ma solo per il mercato interno ( il
grosso della lana veniva esportata allo stato greggio), e ovviamente, la
produzione casearia, ma anche la concia delle pelli; la produzione cerealicola,
che ha avuto nel tempo un andamento variabile in ragione di fenomeni storico
sociali, ma che comunque si è andata viepiù affermando come coltura prevalente,
ha alimentato le attività molitorie, ampiamente diffuse sul territorio, e dei
pastifici, pur tuttavia sempre limitate al soddisfacimento di bisogni locali ( queste
ultime attività, prima hanno utilizzato l’energia idrocinetica e, dalla fine
dell’800, via via l’energia idroelettrica); la diffusione dell’olivo,
soprattutto nel Basso Molise a partire dalla metà dell’800, ha portato alla
installazione di frantoi, azionati prima con energia animale e umana, poi con
energia elettrica. A queste attività vanno aggiunte quelle legate alla
lavorazione dei metalli, sempre di modestissime dimensioni, ad eccezione di
quelle per la produzione dei coltelli (Frosolone e Campobasso), le uniche che
raggiungevano mercati extraregionali; poi,
quelle legate all’edilizia, soprattutto a patire da fine ‘800; infine,
le cartiere di Isernia le cui produzioni raggiungevano la capitale del regno
preunitario, ma poi via via scomparse.
Mulini,
frantoi, filatoi, telai, siti di centrali idroelettriche, per quel che ne
resta, costituiscono il nostro patrimonio archeologico industriale,
testimonianza di un profilo produttivo mantenutosi sempre entro proporzioni
modeste e incapace, per questo, di elevarsi al livello dei veri e propri
processi di natura industriale. Quali le ragioni? La pubblicazione segnala l’orientamento a
privilegiare le attività agro-pastorali, la marginalità territoriale, la
scarsità delle infrastrutture viarie con conseguente condizione di isolamento
delle popolazioni, la limitata capacità del sistema economico complessivo di determinare
accumulo di capitali. Tutto giusto. E tuttavia sotto il profilo delle ragioni, a
me pare che si possano chiamare in
causa ulteriori fattori che a me
sembrano non proprio marginali sia per la comprensione della fragilità di quel
sistema produttivo sia per la
comprensione della fragilità di quello odierno. In particolare faccio
riferimento alla polverizzazione degli insediamenti demografici, all’assenza di
grandi centri urbani e alla progressiva
frammentazione della proprietà fondiaria
Per
quanto riguarda la polverizzazione degli insediamenti e l’assenza di grandi
centri urbani si potrebbe obiettare che a tali questioni si fa implicito rinvio
allorquando si fa riferimento alla marginalità del territorio regionale
rispetto ai crocevia dei traffici, ma tuttavia ciò non toglie l’utilità di una
loro specifica messa a fuoco, poiché una simile attenzione può agevolare una più chiara lettura sia
degli assetti economico-sociali realizzatisi sul territorio sia della
condizione antropologico-culturale della popolazione.
La
presenza di uno o più grandi centri urbani sul territorio, anche in un contesto
di dominante economia agricola, genera un rapporto città- campagna certamente
positivo per le produzioni agricole, ma genera sul territorio anche un più
articolato assetto sociale, poiché la città è il luogo delle professioni, dei
commerci, dell’artigianato. E l’intero sistema che ne deriva è più in grado di
favorire accumulazione di capitali, utile per garantire al territorio una
capacità di sviluppo auto propulsivo. Non a caso il sorgere della società
industriale si è connotato come fenomeno essenzialmente urbano.
L’assenza
sul territorio regionale di un grande centro urbano e la polverizzazione degli
insediamenti demografici hanno impedito le dinamiche del rapporto città-campagna, hanno mantenuto ad un livello più piatto gli
assetti sociali, hanno reso il sistema non in grado di creare accumuli di
capitali ( esito al quale ha concorso lo stesso fenomeno della progressiva
frammentazione fondiaria), hanno mantenuto le attività produttive
esclusivamente legate ai bisogni territoriali, hanno infine favorito il
mantenimento di residui di feudalità per un lungo periodo. Tutti elementi, questi, che hanno reso il sistema
complessivo incapace sia di tenere il passo delle innovazioni sia di favorire
la nascita di uno spirito di imprenditorialità. Per di più, se si considera la già richiamata
polverizzazione degli insediamenti demografici e la loro condizione di
isolamento, si può comprendere come il modello dei rapporti sociali di tipo
comunitario (vicinato, parentali, amicali) si sia a tal punto radicato da costituire una vera e propria connotazione antropologica
delle popolazioni, una connotazione che contamina negativamente i modelli di
relazione sociale regolati dalla norma formale e impersonale (da qui il
pervasivo sistema clientelare che soffoca la regione, impedendole di perseguire
obiettivi di efficienza.).
Può
risultare interessante a questo punto esaminare le dinamiche economiche e
sociali che si sono sviluppate sul territorio regionale nella seconda metà del
secolo scorso, alla luce del quadro dianzi delineato.
Al
censimento dell’agricoltura del 1951, la dimensione aziendale media della nostra regione risultava di poco
superiore a 6 ettari e le aziende per l’89% erano a conduzione
diretto-coltivatrice; la dimensione media di queste ultime era di poco
superiore a 4,5 ettari. Nello stesso
anno il settore primario assorbiva il 75% della popolazione attiva.
Dunque,
una regione ancora ruralissima, ma con un tessuto produttivo molto fragile,
come dicono i dati relativi alle dimensioni aziendali, una fragilità che
risulta ben più grave se si considera la disarticolazione sul territorio di
ciascuna azienda agricola.
La
crisi economica portata dalla guerra ha generato una fuga dai campi che ha assunto
una dimensione biblica. È interessante però osservare come tale fuga si
sia verificata , pur se in tempi diversi, con due diverse modalità: l’emigrazione, prima (anni’50-70), e poi il sempre
più largo ricorso all’istruzione come strumento di promozione sociale. La prima
modalità ha provocato un rapido crollo demografico, la seconda ha anch’essa
alimentato in parte il flusso migratorio, ma prima ha favorito l’approdo nel
settore dei servizi, in particolare quelli pubblici che dagli anni ’70 in poi
hanno conosciuto una rapida espansione. Su
questo versante non è errato sostenere che la massa di nuovi diplomati e
laureati ha anche costituito una significativa spinta verso un’ espansione
patologica del settore pubblici regionale.
Le
attività agricole della residua popolazione
rimasta nei campi per sopperire alla mancanza di manodopera hanno fatto ricorso alla meccanizzazione (fenomeno
peraltro reso possibile esclusivamente grazie a contributi pubblici), però non
hanno subito processi innovativi sul piano delle strutture produttive e delle
riconversioni colturali, e ciò in conseguenza sia dell’invecchiamento della
stessa popolazione sia per la persistente scarsa fiducia riposta in tali
attività.
Il complesso delle attività produttive extra
agricole di natura autoctona ha conosciuto a sua volta processi di
trasformazione, anche significativi, però le aziende si sono mantenute, con
rare eccezioni, entro i ristretti limiti della dimensione artigianale, con una
produzione destinata ad esaurirsi in grande misura all’interno del mercato
locale.
In
questo panorama l’industria di media o grande dimensione non poteva che
giungere dall’esterno, allettata naturalmente da aiuti pubblici, e non
deve destare alcuna meraviglia l’assenza di un suo proficuo
rapporto di interscambio con il territorio, poiché tale assenza trova la
propria naturale spiegazione nel
limitato spirito di imprenditorialità
che il territorio è in grado di esprimere.
Se
esaminiamo nell’insieme gli effetti prodotti da tutte le dinamiche considerate,
il quadro che ne risulta si può sinteticamente così tratteggiare:
-nuovo
assetto della popolazione in rapporto al territorio, con svuotamento delle aree
interne e concentrazione della residua
popolazione in aree territoriali più delimitate, senza tuttavia
determinare una situazione che configura il dinamico e positivo rapporto
città-campagna ;
-
terziarizzazione della società;
-
spostamento dell’asse di riferimento per il complesso delle attività extra
agricole, un tempo funzionali agli assetti del mondo agricolo, oggi invece funzionali
all’assetto terziarizzato della società;
-
sovradimensionamento patologico del settore dei servizi pubblici;
-
un sistema di medie e grandi imprese che sono in grado di sopravvivere solo in
presenza di risorse finanziarie esogene oppure in presenza di una maggioritaria
o totale partecipazione pubblica.
-una
complessiva classe dirigente di basso profilo, e quella politica
particolarmente sprovveduta.
Si
potrebbe continuare, ma tanto basta per affermare che il complessivo sistema
socio economico regionale, pur essendo stato interessato nell’ultimi
sessant’anni da modificazioni radicali, non è riuscito ad emanciparsi da una
secolare condizione di fragilità e sostanziale marginalità, e ciò in ragione
del fatto che alcune connotazioni di
fondo presenti nel vecchio sistema sono rimaste sostanzialmente invariate.
Nota
conclusiva. Ormai sono venti anni che la
nostra regione è sede di università. All’epoca della sua istituzione era una
speranza. Oggi, a distanza di un ventennio, forse sarebbe opportuno fare
qualche bilancio.
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