LA TASSA (racconto)

Ricordi di un vecchio medico di paese di NICOLA PICCHIONE
Sticco e Gerione---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------.................. Un giorno d’estate trovai solo due uomini vicino alla vasca, nella piazza del paese. Un vecchio era seduto sulla panchina di ferro che circonda la vasca all’ombra dei vecchi lecci che non consentono mai ai raggi del sole di penetrare. Un vecchio magro, con un cappelluccio nero calcato sulla fronte, il viso grigio, scavato e solcato da venuzze era seduto appoggiando le mani sul bastone. Aveva una giacca scura poggiata sulle spalle malgrado il caldo e una camicia chiara con gli angoli del colletto ripiegati in avanti. Sembrava che dormisse ma ogni tanto apriva i piccoli occhi arrossati e stanchi. Di fronte a lui, in piedi, un uomo più giovane in camicia con le maniche arrotolate, robusto, la barba scura lunga di qualche giorno. Ci conoscevamo, erano miei clienti. Mi sedetti affianco al vecchio. Era tempo di lavoro nei campi, poco dopo mezzogiorno e in piazza c’era poca gente. Qualcuno passeggiava lentamente sul marciapiedi, una coppia era seduta lontano davanti al bar. Eravamo solo noi tre attorno alla vasca. Sopra di noi, sugli alberi, i grilli celebravano la loro festa estiva. Il tiglio poco più lontano diffondeva il suo profumo dolciastro. Il più giovane iniziò a parlare di raccolto scarso. Il vecchio disse che non c'era da lamentarsi e che ai suoi tempi dopo la guerra la produzione era sempre misera. “Adesso- aggiunse- ci sono i concimi e i motori, il lavoro è molto più leggero e la produzione più abbondante”. Cominciò a raccontare di quando andava a lavorare nella Puglia. Bisognava fare chilometri a piedi o sul carro. Non erano ben tollerati, accusat di rubare il lavoro agli operai del Comune cui appartenevano quelle terre. Peppino, il vecchio, stava raccontando di quando un suo amico che lavorava nella campagna di trebbiatura fu minacciato e gli si ordinò di andarsene. Aveva aspettato mesi per entrare nel gruppo degli operai addetti alla trebbiatrice. Aveva cinque figli senza un lavoro fisso. Rispose stizzito e fu circondato da tre operai dell'altro paese. Insomma finì in una lite e lui tirò fuori il coltello. Colpì uno dei tre e fuggì. Per fortuna lo ferì non gravemente. Peppino aggiunse: “Tu non puoi ricordare…”. Fu interrotto dall’altro, Gaetano: “ Ricordo bene anche se ero piccolo. Mi ricordo che tu lavoravi la terra affianco al piccolo pezzo di terra che mia madre vedova era riuscita a prendere in affitto”. “Me la ricordo tua madre-lo interruppe Peppino- quanti sacrifici faceva per mandare avanti te e tua sorella che eravate piccoli”. Rimasero in silenzio per qualche minuto poi Gaetano iniziò di nuovo a parlare ma con voce più alta: “ C’è un fatto che non dimenticherò finché campo. Fatico a raccontarlo ma ce l'ho sullo stomaco. Tu ne sei il protagonista ma non ti fa onore, mi dispiace dirtelo”, disse alzando la voce come se fosse improvvisamente agitato. Il vecchio alzò il capo, fece scivolare il cappello indietro e chiese incuriosito a quale fatto si riferisse: “Non mi sembra di aver fatto mai nulla di male, ho sempre lavorato e dato da mangiare alla famiglia anche nei momenti più difficili. Posso aver sbagliato ma sempre in buona fede. Ammetto che spesso mi arrabbiavo ed alzavo la voce ma non ho mai fatto male a nessuno e ho sempre pensato ai fatti miei. Sono molto desideroso di sapere quello che ti ha colpito o magari anche offeso” Gaetano si piazzò davanti al vecchio, accese una sigaretta: “Non mi hai offeso e so che sei sempre stato un grande lavoratore, lo sanno tutti. Da giovane eri un tipo duro e irascibile ma sempre corretto. Non ti meravigliare per quello che ora racconto, ti giuro che è la verità”. Peppino lo guardava in attesa della spiegazione. Gaetano restò senza parlare per un minuto poi puntò il dito verso Peppino: ”Non ti offendere ma quel giorno non mi esce mai dalla mente e da allora ti ho visto sempre come una persona dura e senza cuore”. “Che avrò fatto mai di tanto cattivo? Mi sembra di essere sempre stato un uomo perbene” Gaetano rimase per un poco ancora in silenzio come se faticasse a tirare fuori quello che però voleva raccontare poi iniziò: “Avevo una decina d’anni. Ero andato con mia madre nel campo della Puglia che aveva preso in affitto. Dovevamo rimanervi alcuni giorni. Anche se il viaggio era lungo, parecchi chilometri da fare a piedi, mi piaceva accompagnare mamma in quella lontana campagna dove anche voi avevate una piccola masseria vicino a quella dove il padrone ci concedeva di dormire durante il raccolto” “Quella masseria non era nostra, magari”. “Dormivamo in uno stanzone di deposito della masseria rossa che tutti conoscevano. C'erano anche altri con noi”. “ Ricordo bene, chi riusciva a prendere in affitto un pezzo di terra veniva per alcuni giorni e rimaneva in quella masseria”. “Un giorno entrò da noi tua moglie Addolorata, buonanima Dio l'abbia in gloria, povera donna. Era alta e magra con un aspetto sempre stanco”. “Tutti lavoravamo molto, uomini e donne. E anche ragazzi. Era la necessità” “Disse a mamma che il suo bambino di pochi mesi aveva la febbre alta e la pregò di mandare me a chiamarti perché tu lo riportassi in paese per curarlo. Non ricordo come si chiamava il bambino” “ Tonino, come mio fratello disperso in Russia” “ Lo avevo visto varie volte e qualche giorno prima lo avevo anche cullato. Mi aveva guardato con i suoi occhi grandi e chiari e mi sembrò che mi avesse sorriso” “Tonino aveva preso gli occhi chiari da mia madre”. “ Mi avviai a portarti l’ambasciata. Ti vedevo piccolo e lontano sulla linea dell’orizzonte. Stavi arando col mulo. Affrettavo il passo tra le stoppie anche se mi graffiavano i piedi e le gambe nude. Non avevo scarpe ma avevo fatto i calli. Tua moglie mi era sembrata molto preoccupata. Avevo l’impressione di non arrivare mai e tu mi sembravi sempre più lontano. Avevo una decina di anni e mi faceva paura il profondo silenzio interrotto solo dal frinire delle cicale e da qualche improvviso volo di un uccello che spaventato dai miei passi si alzava verso un cielo senza una nuvola. Fruscii improvvisi mi facevano trasalire, forse di lucertole che a me sembravano di serpi. Tu guidavi l'aratro, feci di corsa gli ultimi metri ed avevo il fiato grosso. Quando ti portai l’ambasciata rispondesti: “Dille che debbo finire e poi torno”. Mi rispondesti seccamente senza guardarmi e senza nemmeno smettere di lavorare come se a comandare non fossi tu ma il mulo che tirava l’aratro e anche te. Ricordo che mi meravigliai della risposta. Mi aspettavo di vederti tornare con me. Riferii a tua moglie la risposta e lei mi sembrò ancora più preoccupata. Non aprì bocca. Tornai da mia madre che stava preparando il pasto”. Peppino era rimasto immobile con le mani appoggiate al bastone. Solo ogni tanto scacciava le mosche dal viso. “Passò forse un’ora o poco più e lei tornò da noi. Disse che il bambino era peggiorato, aveva la febbre alta sudava molto e si agitava. A lei sembrava che avesse qualche convulsione. Pregò di nuovo mamma di mandarmi a chiamarti e ripeté più volte di insistere perché tu tornassi per portare il bambino in paese. Ricordo che mi disse: ”Gli devi dire che è grave e dobbiamo tornare in paese”. Attraversai di nuovo i campi. Ti vedevo come un puntino dietro il mulo. Ripetei l’ambasciata. Tu bestemmiasti la Madonna fermando l’aratro. Quasi urlasti: “ Le donne non fanno che piangere e vedere guai”. Confermasti la decisione di finire il lavoro e poi tornare. “Ho quasi finito”, dicesti mentre andavo via. Quando finalmente ti vidi tornare il bambino era morto. Tua moglie si disperava piangendo e lamentandosi. Oggi quasi non si piange più per i morti ma allora per le donne era un obbligo piangere i morti. Per una madre è uno sfogo necessario. Addolorata singhiozzava e ripeteva: “Figlio mio” ma tu le comandasti seccamente di smettere di urlare e piangere con un tono così perentorio che lei smise subito. Forse sapeva che ai tuoi ordini bisognava solo ubbidire, l’avevi domata bene. Quello che accadde dopo non lo ricordo con precisione ma una scena non me la dimenticherò mai. Caricasti la bisaccia sul mulo mettendoci dentro un fagotto coperto da un panno. Lei ti disse: “Fammelo portare in braccio”. Tu con parole secche le ordinasti di montare sul mulo. Lei singhiozzava in silenzio. Partiste. Sentii da mia madre che avevi messo il bambino morto nella bisaccia. Quel fagotto messo nella bisaccia era Tonino. Ricordo che provai un brivido. Ancora lo provo nel raccontarti tutto questo”. Gaetano si fermò quasi a riprendere fiato. Quella breve pausa mi sembrò molto lunga, ritmata dal frinire delle cicale sugli alberi. La piazza era ormai deserta, i pochi che prima passeggiavano erano andati a pranzare. Gaetano riprese la sua cronaca. Parlava in fretta come se volesse portare a termine il racconto più presto possibile. Continuò: “Quella notte tardai ad addormentarmi. Sognai il bambino che mi guardava con i suoi grandi occhi chiari immersi nel buio; non vedevo il suo volto né il suo corpicino ma solo due manine protratte nel buio come a volerlo dissolvere e cercare l’aria e la luce. Da allora ti vidi sempre come un duro, senza cuore, senza umanità. So che sei una persona onesta e sei stato un gran lavoratore ma questo non basta per fare un uomo. Che cosa è un uomo se non ha un po’ di cuore? Con quale coraggio hai messo il tuo bambino nella bisaccia come se fosse un fagotto? Anche se sono passati molti anni non dimenticherò mai quel giorno e ho voluto ricordartelo per togliermi un peso dallo stomaco. Ora che sei vecchio forse sei cambiato e ti sei ammorbidito ma io ti ho visto sempre come quel giorno quando mi rispondesti di tornare a dire che dovevi finire il lavoro e poi nell'atto di mettere la bisaccia sul mulo”. Gaetano aveva parlato con voce forte accalorandosi senza distogliere gli occhi dal vecchio e quasi dimenticando la mia presenza o forse ritenendo che il medico è tenuto al segreto. Dopo una breve pausa, però, si girò verso di me e puntando il dito verso il vecchio mi chiese come sperando in un mio commento: “Hai capito che razza di tipo è Peppino Scarpavecchia?”. Il vecchio lo aveva ascoltato senza guardarlo. Tirò indietro il suo vecchio cappello, passò un gran fazzoletto blu e rosso sulla fronte e lo fissò in viso con occhi che mi parvero piccoli, quasi socchiusi. Erano chiari. Come quelli di Tonino, mi venne in mente. Sembrò pensare per un poco poi disse con voce calma: “Ricordo bene tutto. E’ proprio come lo hai raccontato. Tu eri un ragazzo e capisco la tua impressione. A volte i grandi si comportano come se i piccoli non fossero presenti o non ascoltassero ciò che essi dicono e non vedessero come si comportano, sicuri che non ne debbono rendere conto a loro. E’ un grosso errore. I piccoli vedono, sentono e capiscono. Soprattutto, ricordano. Non possono sapere tutto, però. Voglio aggiungere qualcosa al tuo racconto. Ora sei grande e può darsi che mi capirai anche se non ne sono certo. Mi rendo conto che il mio comportamento possa esserti sembrato crudele e selvaggio. Oggi non si può capire come era il bisogno a quei tempi. Pancia piena non crede al digiuno, come si dice. Il bisogno ci può rendere selvaggi”. Si fermò per un po’ poi riprese, sempre con voce pacata quasi sussurrando: “ E’ vero, sottovalutai l’avvertimento di mia moglie che era una donna molto brava ma si allarmava con niente. Di tutto faceva un dramma e per questo sottovalutai la chiamata. Allora le febbri erano frequenti soprattutto tra i bambini e se ci si fermava ogni volta il lavoro non andava avanti. Avevo comprato un po’ di terra qui in paese facendo debiti e sperando nel raccolto ma da due anni non riuscivo a mettere da parte nemmeno il grano per mangiare e per la semente. Ero assillato dal debito e dal bisogno. Ero riuscito a prendere in affitto tre ettari vicino la masseria rossa, in Puglia. C'era una piccola masseria che serviva solo per ripararsi in caso di maltempo ma noi ci dormivamo e mangiavamo approfittando del camino per cucinare. Addolorata, mia moglie, era venuta col bambino per aiutarmi. Dovevamo rimanere una settimana e poi tornare qui in paese. Quando tornai alla masseria, Addolorata si disperava e urlava. Allora i morti si piangevano con urla che spesso erano solo di facciata ma quella volta venivano dal cuore. La morte di un figlio ti strappa il cuore e le viscere. Allora i bambini molto piccoli spesso morivano se si ammalavano. Non c'erano molte medicine. Quando la morte è di casa in un paese si diventa meno sensibili e più preparati ad accoglierla anche in casa. Allora il pianto era affidato alle donne noi uomini dovevamo apparire forti anche di fronte alla morte”. Fece una pausa e si passò di nuovo il gran fazzoletto sulla fronte sollevando il cappello. Continuò: “ Come puoi pensare che la morte di un figlio non dia dolore anche al padre anche se gli uomini, allora, non piangevano i morti. Questo sfogo era riserbato alle donne come se piangere fosse stato un atto di debolezza non concesso agli uomini. Credimi, provavo dolore e anche senso di colpa ma dovevo rimanere lucido. Mi rendevo anche conto di avere sbagliato, di non aver valutato abbastanza la situazione. Mi lasciavo prendere troppo dal lavoro, lo ammetto. A volte si diventa schiavi del lavoro specie nei campi quando sembra che il tempo non basti mai. Ero giovane, forte”. Fece una pausa come se stesse riflettendo con sé stesso. Non guardava più Gaetano ma verso la piazza come se il suo sguardo volesse andare lontano. “Vedi, credo che si nasce con una condanna. C'è chi nasce condannato a lavorare sempre e chi nasce per non lavorare mai. Mio fratello Tonino che morì in Russia era nato per non lavorare. Veniva in campagna col fucile e col cane e lo vedevi sparire. Se ne andava a caccia. Poi magari riportava una lepre. Rideva, sapeva raccontare, era il più ben voluto da nostra madre. Ognuno nasce con la sua stella e la sua indole, io sono sempre stato di poche parole e non conoscevo riposo. Quel giorno volevo finire di arare, sapevo che se avessi smesso il lavoro avrei dovuto riprenderlo il giorno dopo o magari più tardi. Però non voglio scusarmi, voglio solo provare a completare il tuo racconto. Devi sapere che allora per riportare il bambino morto a questo nostro paese (si interruppe un attimo quando pronunciò “ u cit’l’ “, il termine dialettale per indicare affettuosamente un bambino, forse incerto se usare il nome del bambino), dovevamo attraversare un altro paese, come sai. Forse non sai, però, che si doveva pagare una tassa per i morti che attraversavano il territorio di un paese. Io non avevo quei soldi. Oggi sembrerà assurdo ma allora anche poche lire potevano mancare. Per questo imposi a mia moglie di non urlare. Nessuno doveva sapere della disgrazia. Dovevamo riportare il bambino di nascosto per non pagare la tassa perciò lo misi nella bisaccia. Quel ritorno fu doloroso e mi sembrò molto più lungo delle altre volte. Non scambiammo una sola parola, ognuno chiuso nei suoi pensieri. Sentivo ogni tanto i singhiozzi di Addolorata che era sul mulo, affogati nello scialle che la copriva. Quante volte ho percorso quella strada col sole e con la pioggia, di giorno e di notte sempre stanco di fatica e qualche volta affamato. Era la strada della speranza per un buon raccolto o più spesso della delusione per una malannata. Mai come quella volta mi parve tanto lunga. Me la prendevo con me stesso, con la malasorte, col Padreterno sfogandomi dentro di me con bestemmie. La miseria ti apre anche la strada dell’Inferno. Non avevo il coraggio di rivolgere la parola a mia moglie. Nemmeno di incitare il mulo. La lingua mi si era attaccata. Per la prima volta non ci fermammo nemmeno a bere alla fontana del pero, come facevamo sempre, prima di prendere la strada in salita, anche se la gola era secca”. Di nuovo il vecchio si interruppe come se parlare gli costasse fatica. Proseguì: “ Fu un viaggio senza fine, muti, chiusi nel dolore e io anche nel rimorso”. Peppino abbassò lo sguardo, gli occhi erano lucidi. Sospese il racconto come a farsi forza. Gli uomini non debbono commuoversi nemmeno da vecchi. “Quando arrivammo qui in paese ed entrammo a casa deposi il bambino sul nostro letto con grande delicatezza quasi a farmi perdonare quella brutalità forzata. Aprii il panno col quale lo avevo avvolto. Gli diedi una carezza. Guardai mia moglie. Non sapevo che dirle, non avevo nemmeno il coraggio di giustificarmi. Le dissi soltanto: “Ora piangi quanto vuoi”. Rimanemmo tutti e tre in silenzio. Il vecchio aggiunse: “ Ti assicuro che non sono stato né un cattivo marito né un cattivo padre. Abbiamo avuto altri quattro figli e ho mandato avanti la famiglia meglio che potevo. Allora erano tempi brutti, chi è giovane adesso non riesce a immaginarli ed è meglio che noi vecchi non ne parliamo. Quella tassa oggi sembrerebbe poca cosa ma per quelli come me anche pochi soldi erano importanti”. Si fermò per un po' e aggiunse: “ Allora anche i sentimenti erano un lusso per i poveri”.

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