Il limite del mondo si chiama Belém
di Fabio Cavallari per Ambientenonsolo -
Novembre 9, 2025TALLURI MARCO
A Belém non si discute di clima. Si discute di sopravvivenza. L’aria è densa, la luce cade sulle acque del Rio delle Amazzoni come una condanna. Ogni foglia che cade racconta una storia che non sappiamo più ascoltare. Il mondo si è dato appuntamento nel suo ventre per capire se esiste ancora un domani che non sia un algoritmo o una statistica. La chiamano COP30, ma il numero dice più della parola. È la trentesima volta che l’uomo si riunisce per salvarsi da se stesso. È la trentesima volta che promette, calcola, rinvia. È la trentesima volta che chi parla del futuro lo fa con la voce di chi non ha tempo.
La Santa Sede è presente, come lo sono i governi, gli scienziati, i Capi di Stato, le organizzazioni. Ma la differenza non è nei ruoli, è nelle parole. Monsignor Diquattro ha chiesto un “segno concreto di speranza”. Non un segnale, non un atto di fede. Un segno. Cioè, qualcosa che lasci traccia. La politica mondiale ne lascia sempre meno. Ci sono dati, grafici, comunicati, ma nessuna traccia. E allora la parola speranza torna a essere radicale, perché è l’unica che non può essere misurata.
A Belém si parla di educazione ecologica, di debiti, di fondi, di giustizia climatica. Ma la vera questione non è economica, è etica. Chi paga, e chi decide. Chi rinuncia, e chi finge di rinunciare. Il pianeta non chiede piani industriali, chiede una rivoluzione dello sguardo. Perché non basta cambiare energia se non si cambia idea di energia. Non basta piantare alberi se non si smette di considerarli un possesso. Non basta parlare di futuro se lo si intende come un privilegio.
La Santa Sede porta in quella sala una lingua diversa, e in questo è laica nella sua essenza. Non predica, ma ricorda che ogni scelta tecnica senza coscienza diventa un atto di dominio. Lo fa in un tempo in cui il linguaggio della politica è esausto, ridotto a negoziazione perpetua. La parola “vincolante” è diventata impronunciabile. La parola “rinuncia” è una bestemmia. Eppure non ci sarà salvezza senza di esse.
L’Amazzonia non è più una metafora, è il corpo del mondo. Si ammala dove il mondo si ammala, respira dove il mondo respira. Tutti ne parlano, pochi l’ascoltano. Ogni volta che un fiume viene deviato, che una foresta viene bruciata, che una comunità indigena scompare, l’umanità perde un frammento di se stessa. Ma la perdita non commuove più nessuno. Abbiamo imparato a misurarla, a contabilizzarla, a renderla notizia. È questo il vero collasso: non del pianeta, ma della sensibilità.
La COP30 poteva essere solo un rito, ma forse può diventare un atto politico nel senso più alto. Non perché cambierà la storia, ma perché potrebbe restituirle un orizzonte. Le parole di Diquattro — efficienza, obbligo, controllo — non appartengono a un vescovo ma a un uomo che ha visto il limite. E il limite, oggi, è l’unico luogo in cui può nascere un pensiero.
Belém è quel limite. È la città dove la terra si difende da sola, dove l’acqua non chiede permesso, dove il calore impone silenzio. È il punto in cui l’uomo deve scegliere se restare animale economico o tornare essere vivente. Tutto il resto — i documenti, le cifre, le agende — è rumore.
Non serve più un linguaggio tecnico, serve una lingua capace di dire la vergogna. Di nominare la colpa senza attenuanti. Di riconoscere che l’era del possesso è finita. Ciò che chiamiamo transizione non è un progresso, è una resa dignitosa. L’uomo deve imparare a dimorare, non a dominare.
Quando il cardinale Parolin ha detto che “la comunità internazionale deve agire con efficacia”, ha pronunciato la frase più politica di tutta la conferenza. Non perché provenga da un pulpito, ma perché restituisce all’azione la sua gravità. Agire non è muoversi, è assumere la responsabilità di ciò che si tocca. L’efficacia non è velocità, è conseguenza.
Forse Belém sarà ricordata come il luogo in cui l’umanità ha guardato se stessa e ha visto la propria stanchezza. Ma potrebbe essere anche il punto in cui ha capito che la speranza non è una parola da custodire, ma una fatica da compiere. La COP30 non è un evento sul clima, è un esame di coscienza del pianeta. Se non lo superiamo, non ci sarà più un pianeta che ci esamini.

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