Una tregua per sperare nella pace
di Umberto Berardo
Il tema del conflitto arabo-israeliano richiede delle analisi di tipo storico ma anche attente e
oneste osservazioni relative al contesto geopolitico odierno.
Il territorio interessato, comprendente la regione litoranea tra la Siria, la Fenicia e l'Egitto, è
inizialmente denominato Philistia e abitato da molti popoli in gran parte provenienti dalla
Mesopotamia tra cui Filistei, Cananei, Maccabei colonizzati poi dagli Israeliti fuggiti a loro volta
successivamente in Egitto durante l’occupazione di quell’area da parte di Assiri e Hyksos.
Nella Bibbia ebraica la sua denominazione è "Terra di Canaan" ma pure "Terra di Israele"; poi
solo con le storie di Erodoto prende il nome di Palestina nel V secolo a. C.
La sua sacralità per tre grandi religioni riguarda ovviamente più una narrazione mitologica che
storica.
Sulla regione si avvicendano il dominio assiro, neo-babilonese, persiano, ellenistico e nel 134
d.C. quello romano che ne fa una propria provincia del proprio impero chiamata “Syria Palaestina”.
I tentativi di ribellione della popolazione israelita portano nel 70 d. C. alla distruzione del Tempio
di Gerusalemme dopo la quale inizia il fenomeno della “Diaspora” ovvero la dispersione delle
comunità ebraiche nel mondo fuori dalla Palestina conquistata poi dai califfi arabi nel VII secolo e
rimasta sotto il dominio dell'impero ottomano per circa 400 anni.
Durante la prima guerra mondiale con l'Accordo Sykes-Picot del 1916 il Medioriente viene
spartito tra Francia e Regno Unito mentre già nel 1897 Theodor Herzl ha fondato l’Organizzazione
Sionista Mondiale che sostiene il ritorno degli ebrei in Palestina.
Con la dichiarazione Balfour del 1917 il sostegno britannico alle richieste del movimento sionista
per la creazione di uno Stato ebraico in terra di Palestina si scontra subito con i progetti degli altri
Stati arabi.
Nel 1922 gli ebrei che vivono lì sono 83.790 unità su un totale di 752.048 persone, ma il loro
numero arriva a 610 000 nel 1947.
Iniziano subito episodi di violenza e di reciproca intolleranza tra le due etnie soprattutto dopo la
risoluzione 181 del 1947 con cui l’ONU decide una divisione del territorio palestinese attribuendo
in modo iniquo il 56% del territorio al futuro Stato di Israele.
In tutto quel territorio in ogni caso la maggioranza della popolazione è ancora oggi araba.
I gruppi ebraici accettano la suddivisione, mentre gli arabi presentano alla Corte internazionale di
giustizia un ricorso poi respinto.
La decisione dell’Onu scatena un’ondata di violenze che vede la Palestina nel 1948 precipitare
nel caos ad opera di gruppi paramilitari sionisti e arabi.
Dopo la dichiarazione dello Stato Ebraico nell’aprile del 1948 e quella dello Stato unitario arabo
di Palestina con il massacro nel villaggio palestinese di Deir Yassin da parte delle milizie ebraiche
di Irgun e Lehi inizia l’esodo dei palestinesi in Libano, Cisgiordania ed Egitto con circa 750.000
sfollati.
L’evento viene chiamato dal popolo palestinese al-Nakba che nella loro lingua significa
“Catastrofe”.
Nel 1949 Israele firma armistizi con Egitto, Libano, Transgiordania e Siria raggiungendo così il
78% del territorio della Palestina.
Si rompe in tal modo il fronte unito dei Paesi a sostegno dei palestinesi.
Contro l’Intifada promossa dalle organizzazioni paramilitari arabe quali Hezbollah e Hamas
Israele risponde con guerre quali quella dei “sei giorni” del 1967 occupando nuovi territori.
Nel 1978 l’Egitto riconosce lo Stato ebraico e rientra in possesso del Sinai occupato da Israele.
Continuano così le fratture tra i Paesi arabi.
Nel 1982 Israele invade il Libano.
Dopo una sollevazione di massa del popolo palestinese nel 1988 Yasser Arafat, leader dell’OLP,
dichiara l’indipendenza della Palestina.
Questo susseguirsi di conflitti termina nel 1993 con gli Accordi di Oslo, firmati da Arafat e
Yitzhak Rabin con cui si prevede il ritiro delle forze armate israeliane dalla striscia di Gaza e da
alcuni territori della Cisgiordania ma anche la creazione entro un quinquennio di uno Stato
palestinese costituito da Cisgiordania, striscia di Gaza e Gerusalemme Est.
La morte di Rabin, assassinato da un nazionalista sionista, fa naufragare questo tentativo di
accordo.
I palestinesi così vengono relegati in alcune aree della Cisgiordania con amministrazione mista
tra Autorità Nazionale Palestinese e Israele e a Gaza dove nel 2006 Hamas, un’organizzazione
paramilitare sunnita, riesce a vincere le elezioni su Al Fatah ottenendo il 74% dei seggi.
La creazione di barriere di separazione da parte di Israele per difendersi dal terrorismo e
l’allargamento dei coloni in Cisgiordania con mezzi violenti e disumani hanno fatto di quei territori
in realtà non uno Stato per i palestinesi ma una sorta di prigione a cielo aperto per quella
popolazione.
Gli “Accordi di Abramo” firmati il 15 settembre 2020 da Israele, Stati Uniti d’America, Emirati
arabi e Bahrein per normalizzare i rapporti reciproci vengono considerati una vera e propria frattura
tra i Paesi Arabi nel sostegno verso il popolo palestinese che vede tali intese come un tradimento
della propria causa e che secondo alcuni osservatori avrebbero determinato l’operazione terroristica
del 7 ottobre 2023, un’azione offensiva gravissima da parte di Hamas su un Kibbuz israeliano che
dà luogo a una vera e propria successiva catastrofe umanitaria.
Ḥamas in tale data lancia dunque il più grande attacco in territorio ebraico dalla guerra arabo-
israeliana del 1948, uccidendo circa 1.200 persone e prendendone in ostaggio 250, rivendicando
l'azione come "atto difensivo".
È davvero del tutto inappropriata tale definizione per un massacro perpetrato contro la
popolazione civile.
Si tratta in realtà di terrorismo come lo sono tutti gli atti persecutori di Israele verso gli
insediamenti palestinesi.
L'attacco porta all’apertura di un’azione militare da parte dell’esercito israeliano non solo contro
Hamas ma verso la popolazione civile di Gaza; Netanyahu attacca anche diversi Paesi tra cui
Libano, Iran, Qatar e Yemen.
In realtà Israele non ha condotto una guerra contro i terroristi, ma sta ricorrendo da allora a
bombardamenti indiscriminati contro i civili che stanno sfociando ormai da tempo nell’occupazione
di Gaza e in un vero e proprio genocidio del popolo palestinese lasciato nell’isolamento dal mondo
occidentale e non solo.
A Gaza fin qui ci sono stati più di 68.000 morti tra cui 18.400 bambini e ora con l’occupazione di
terra da parte di Israele gli sfollati costretti ad andare via verso l’ignoto sono migliaia.
Le organizzazioni internazionali come l’ONU e la stessa Unione Europea nulla fanno per porre
fine al massacro disumano cui stiamo assistendo.
La sollevazione internazionale che comincia ad essere continua e più efficace sensibilizza
finalmente l’opinione pubblica, ma è la politica che non riesce a trovare i sistemi di
contrapposizione alla scelleratezza dell’attuale governo Israeliano.
Il massacro di Gaza non finirà se Israele continuerà ad avere l’appoggio degli USA e degli altri
Paesi occidentali che forniscono a Netanyahu quantitativi enormi di armi e mezzi militari perché
considerano Israele il loro avamposto in Medioriente per la gestione del potere economico e politico
in quell’area.
Due Stati autonomi e indipendenti o un unico Stato multietnico sono la soluzione della questione
mediorientale?
Il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad avere uno Stato ovviamente non può riferirsi alla
situazione esistente perché quel popolo ha bisogno di un proprio territorio definito decentemente e
di una classe dirigente eletta con un sistema non pilotato e di sicuro con principi di riferimento che
non possono essere quelli di Hamas.
È difficile oggi immaginare una soluzione praticabile in immediato perché tra ebrei e palestinesi
c’è troppo odio, ma certo occorre lavorare per impedire la disumanità che abita ormai quell’area da
tantissimi anni da parte di Israele in risposta al terrorismo arabo.
È la diplomazia che bisogna muovere rinnovando democraticamente l’ONU il cui ruolo
d’interposizione si è fin qui rivelato assolutamente inesistente.
Il piano annunciato da Trump è stato inizialmente solo un’intesa tra USA e Israele per
smilitarizzare Gaza e affidarla ad un’amministrazione provvisoria con la supervisione statunitense.
Tra l’altro tale accordo ha ignorato il coinvolgimento di tutte le organizzazioni internazionali.
Parafrasando Tacito possiamo solo dire che hanno fatto un deserto con un genocidio tra i più
disumani della storia seminando morti e distruzione e ora hanno anche il coraggio di voler parlare di
un progetto di pace enfatizzato anche dai media ma semplicemente assurdo e imposto a un popolo
cui negano ogni dignità nel presente senza interpellarlo ma anche per il futuro imponendogli una
condizione di sottomissione ai poteri forti degli Stati Uniti d'America e di Israele che stanno
calpestando tutte le regole del diritto internazionale.
La pressione delle manifestazioni contro il genocidio a Gaza e l’isolamento crescente di
Netanyahu hanno finalmente spinto gli Stati Uniti d’America a qualche riflessione.
Il 9 ottobre alle ore 11,00 italiane nei colloqui in Egitto tra Israele e Hamas si sarebbe raggiunto
un accordo in venti punti per una tregua.
Il rilascio degli ostaggi da parte di Hamas e di circa duemila palestinesi in carcere da Israele
come il ritiro del suo esercito lungo una linea concordata al nord di Gaza possono rappresentare
intese capaci di mettere fine alla violenza disumana che ha devastato negli ultimi due anni molti
Paesi mediorientali ma soprattutto Gaza.
Per tale fine è del tutto evidente che il tentativo per raggiungere una tregua non può che essere
sostenuto se riesce a impedire la prosecuzione di massacri e devastazioni in quell’area.
Vedere con il cessate il fuoco già i gazawi riguadagnare il nord della Striscia di Gaza sicuramente
alimenta un po’ di speranza.
Permangono di sicuro all’orizzonte incognite e problemi molto seri da risolvere sui quali ancora
non si intravedono soluzioni possibili come il disarmo delle formazioni terroristiche, una
governance di Gaza e Cisgiordania, un piano per la sicurezza e la gestione delle fasi successive alla
guerra.
Un accordo firmato solo con un interlocutore come Hamas si può capire solo se serve per porre
fine al genocidio in atto a Gaza e per rimettere in libertà gli ostaggi in mano a quel movimento
terrorista.
Si impone finalmente a Netanyahu di far entrare a Gaza i mezzi con gli aiuti umanitari come se
questo non dovesse essere la norma durante una guerra.
Le notizie vaghe che filtrano dall’informazione lasciano immaginare che i prigionieri in Israele
sarebbero rilasciati in una sorta di libertà vigilata all’interno della striscia di Gaza.
Nulla ancora è chiaro anche sul disarmo di Hamas e sulla linea di arretramento dell’IDF.
Il coordinamento che dovrà gestire la transizione permetterà ai palestinesi fuggiti al sud di poter
avere tranquillità di una vita decente con un ritorno al nord e soprattutto garantirà a quel popolo un
proprio Stato con un’amministrazione libera e autonoma?
Chi gestirà la rimozione di 61 milioni di tonnellate di macerie per la quale sembra occorrano
almeno quindici anni, ma soprattutto come si potranno superare i lutti che la popolazione israeliana
ma soprattutto palestinese ha avuto?
Ci sono poi i problemi degli ordigni inesplosi e le possibili contaminazioni derivanti dalle circa
dodicimila vittime ancora sepolte sotto gli edifici abbattuti dai bombardamenti.
Per ora dunque l’accordo raggiunto in Egitto tra Israele e Hamas può generare solo speranza
perché il cammino per una pace vera è ancora irto di ostacoli da rimuovere.
Di sicuro la nostra responsabilità sociale e politica come cittadini deve portarci a comprendere i
problemi aperti dalla questione palestinese per trovarne una soluzione razionale e condivisa.
L’indifferenza che circonda la situazione mediorientale da parte di molti Paesi mondiali succubi
di relazioni economiche amorali con Israele impedisce al momento ogni tentativo di accordi in
merito.
Ignorare da parte di ciascuno di noi ciò che accade rifuggendo da ogni impegno sociale e politico
come purtroppo molti fanno sarebbe da irresponsabili e ci renderebbe conniventi con quanto sta
avvenendo.
Come ho scritto di recente dopo una manifestazione a Campobasso, penso si debba disegnare una
Palestina libera con uno stato multietnico o due Stati indipendenti contro le logiche perverse del
nazionalismo sionista e del terrorismo di Hamas.
Di fronte all'indifferenza della politica e di tanta parte dell'opinione pubblica alimentata dalla
disinformazione del sistema mediatico credo, come sto proponendo in diversi incontri, che occorra
mobilitare la sollevazione popolare isolando da essa il teppismo e lottando contro le logiche
terroristiche di Hamas e il genocidio perpetrato da Netanyahu attraverso assemblee pubbliche sul
territorio capaci d'impedire la disumanità in cui siamo nuovamente precipitati in diversi scenari di
guerra e di abominio in Europa e in altre aree geografiche in cui si tenta di negare il diritto
all'esistenza di diverse etnie che si oppongono al colonialismo e all'imperialismo.
L’esperienza della Global Sumud Flotilla, che certo ha avuto il grande merito di accendere i
riflettori sul genocidio in atto a Gaza, si è chiusa con i volontari prelevati con la forza dalle loro
imbarcazioni in acque internazionali.
Trattenuti nella struttura detentiva di Be'er Sheva, i fermati per essere rimpatriati hanno dovuto
sottoscrivere una dichiarazione con cui si ammette di aver violato i confini; chi invece ha rifiutato
ha dovuto attendere il provvedimento dell'autorità giudiziaria con tempi di 48 o 72 ore.
L'indifferenza di fronte a tali eventi di negazione del diritto internazionale sarebbe davvero grave
e inconcepibile!
Occorre ora più che mai essere presenti e operativi perché il conflitto arabo-israeliano potrà
sfociare in una pace vera solo quando i due popoli che vivono in quel territorio decideranno di porre
fine alle logiche radicali di potere e di vendetta e decideranno di vivere insieme oppure uno accanto
all’altro dando però ai Palestinesi che ne mancano un orizzonte politico e la dignità di popolo.
Non credo al riguardo esista altra strada!
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