Dopo la politica il furto della cultura

 di Nicola Picchione


Foto di Nicola Picchione

Da sempre le culture si rinnovano, sul vecchio si innesta il nuovo. In passato di solito è avvenuto lentamente. L’ultimo cambiamento è avvenuto da noi in modo improvviso, traumatico. Ci è piovuta  addosso nel dopoguerra la cultura americana, forte prepotente. Non imposta ma accettata come sempre ivinti accettano i vincitori. La nostra cultura si era formata in millenni, i tanti invasori avevano portato i loro usi e la loro cultura arricchendo ma non soffocando la nostra che essi avevano finito con accettare e gradire. In breve tempo i nostri ritmi di vita i nostri gusti sono stati seppelliti. 
Gli americani ci hanno incantato e abbiamo sentito il bisogno di rinnegare gran parte delle nostre tradizioni purtroppo conservando spesso i nostri aspetti negativi. Non solo modo di vestire di alimentars  e gusto musicale (ci siamo vergognati dei nostri canti popolari tradizionali e abbiamo accolto i canti country dei vaccari americani più noti col nome esotico di cowboys, abbiamo rinnegato la nostra tradizione melodica vergognandocene) ma modo di lavorare e gestire il tempo che ha cominciato a correre e ad essere valutato come danaro. Il termine ozio che per gli antichi aveva il significato nobile del tempo dedicato alla cultura e alla vita sociale ha assunto il significato di perdita di tempo: quello sottratto al negozio cioè agli affari.

L’orologio ha finito con scandire con precisione la nostra vita. L’artigianato sostituito dal lavoro in serie, i piccoli negozi che servivano anche a socializzare sostituiti dai supermercati che ci propongono con metodi ben studiati la loro merce abbondante. La tecnica trasformata da strumento in padrona che detta la nostra vita e che esige un continuo delirante rinnovamento: tutto invecchia subito e deve essere sostituito, una legge di mercato ferrea disumana. Lavorare per consumare, trasformare il superfluo in necessario; una corsa insensata a guadagnare di più per spendere di più senza mai spegnere il desiderio. 

La vita come gara ad avere, a mettersi in mostra, a illudersi di rimanere giovani. Il possesso come segno di successo e di potere e di non avere bisogno degli altri in disprezzo della solidarietà, stretti gli uni agli altri eppure isolati e sempre più individualisti. Le nostre belle città sempre più grandi trasformate in casermoni e prigioni dove si vive male. La natura non più come madre che ci accoglie e ci nutre ma come riserva da sfruttare.

 La libertà esaltata negli aspetti formali ma sempre più sottomessa al ricatto del lavoro e all’ignoranza mascherata da una informazione distorta. entiamo il peso di una crescente ansia e di una depressione che mascheriamo con le luci e con gli altoparlanti urlando le nostre ragioni e sordi a quelle gli altri, coprendo la nostra prepotenza con motivazioni insensate.

Avevamo accolto gli usi e la cultura dei vincitori come segno di libertà e democrazia, ciechi e sordi ai tanti allarmi di una potenza che nascondeva (ma non troppo) la prepotenza. Ora siamo immersi in quel modello di vita, ne siamo dipendenti materialmente e psicologicamente. Tanto che a provare a guardare con occhi  iversi si corre il rischio di essere definiti sprezzantemente come antidemocratici e illiberali. Del resto, quel modello è divenuto globale sempre più esasperato. Una trappola dalla quale non è possibile fuggire. Eppure non esiste l’impossibile. Tra i dormienti alcuni cominciano ad alzare la testa, unirsi e percorrere le strade e le piazze per recuperare diritti reali e solidarietà. Un timido inizio che alcuni temono e che altri salutano come segno di risveglio.

Commenti

  1. Grazie NIcola. Condivido questa tua riflessione che spiega i disastri prodotti in questi cinquant'anni da un sistema di un sistema predatorio e distruttivo che ci vuole empre più i responsabili del consumo di ciò che esso distrugge. Sto pensando al territorio che vede un consumo di oltre 2 metri quadri ogni secondo che passa. Sto pensando a quanti con notizari e comunicati stampa di vantano del valore del nostro agroalimentare e non dicono una parola sul consumo del territorio e la fine dell'agricoltura contadina, valori che sono alla base del successo che nel mondo vive il nostro agroalimentare e che il sistema vuole azzerare. Vedi gli attacchi insistenti al vino, all'olio e, ultimamente, grazie al negazionista per eccellenza, anche alla pasta con una tassazione aggiuntiva del 107" al 15% già fissato. E, però, la signora che ci governa è bella per il rappresentante principe del sistema neoliberista, la globalizzazione, il mercato, la tecnica. Ancora grazie di questo tuo nuovo contributo, che onora il mio blog.

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