Non è lo Stato a trattare. È Eni.

di Fabio Cavallari
[Gli articoli di Fabio Cavallari per Ambientenonsolo]
C’è una geografia del potere che non si vede sulle cartine. Non coincide con le frontiere, non segue il ritmo dei governi, non teme le urne. È fatta di infrastrutture invisibili, corridoi sotterranei, reti che precedono il racconto.
In questa geografia, l’Italia non è protagonista. È passaggio. E nel cosiddetto “Piano Mattei”, evocato come svolta strategica per l’Africa, il segno dominante non è politico. È energetico.
Il governo lo racconta come progetto cooperativo, umanitario, persino culturale. Ma gli accordi firmati dicono altro: concessioni, infrastrutture, intese pluriennali. Il motore non è la Farnesina. È un nome solo: Eni.
Non è Eni a eseguire il Piano Mattei. È il Piano Mattei a poggiare su Eni. Il piano c’è perché Eni c’era già. Ha preparato i dossier, firmato memorandum, consolidato la sua presenza in Algeria, Libia, Egitto, Angola, Congo, Tunisia, Albania. Le visite istituzionali arrivano dopo. Sono la fotografia, non l’impulso.
Quando Meloni atterra a Tunisi o Valona, Eni ha già negoziato, costruito, garantito.
Quello che si mostra alle telecamere è solo l’ultimo atto di un copione già siglato.
Non è uno scandalo. È un dato.
L’Italia, da anni, ha rinunciato a una politica energetica pubblica. Ha affidato tutto alla credibilità di un attore solo. Eni non è più monopolio per legge, ma monopolista per necessità. È l’unica realtà italiana capace di trattare, mediare, agire. Non è un braccio dello Stato. È il corpo che consente allo Stato di sembrare ancora in piedi.
Il Piano Mattei non è una visione strategica. È una mappa che Eni conosce già. La aggiorna con impianti fotovoltaici in Albania, gasdotti in Algeria, cavi sottomarini tra Valona e Brindisi. Il governo può firmare accordi, ma solo perché Eni ha già aperto le porte. Ecco allora la frase, spogliata di retorica: non è Eni che segue Meloni. È Meloni che segue Eni.
Perché oggi il potere non risiede nei ministeri, ma nella capacità di presidiare la profondità: il sottosuolo, i corridoi, i flussi. Chi governa le infrastrutture scrive le agende. Chi conosce i nodi, detta le rotte.
Non è una denuncia. È una fotografia. Una lettura post-ideologica del potere italiano.
Che non toglie nulla ai meriti di Eni. Solidità, visione, competenza. Ma che chiede a chi governa di non scambiare la funzione con il comando.
E di non chiamare “sovranità” ciò che è dipendenza ben gestita.
Affidare tutto a un grande attore industriale può anche essere una scelta. Soprattutto se lo Stato, tramite Cassa Depositi e Prestiti, controlla le nomine e incassa i dividendi.
Ma bisogna avere il coraggio di dirlo. E la misura di non applaudire troppo, quando si ratifica ciò che altri hanno già scritto.
Questa strada non porta certo fuori dai combustibili fossili, come è indispensabile per contrastare l’emergenza climatica.
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