Grazie dei fior. Un lontano ricordo di Sanremo.
di NICLA PICCHIONE
Le faccende personali dovrebbero rimanere personali ma a volte riescono a gettare un raggio di luce sul
passato e un raffronto con il presente rende l’idea del tempo passato assumendo un significato non solo
personale. Come tali ci si può sentire autorizzati a parlarne ogni tanto. Come faccio ora.
Da anni non seguo il festival di Sanremo. Non per snobbismo ma perché non ascolto le canzoni di oggi,
non mi dicono nulla. Un altro mondo che mi sembra troppo spesso urlato, agitato, mascherato. Certamente
mi sbaglio a causa dell’età (presbiopia sonora?). Le canzoni e il festival sono lo specchio di un’epoca perciò
meritano attenzione e rispetto e poi non si può generalizzare: si finisce nelle lamentele solite dei vecchi. Ci
sono canzoni belle anche oggi. L’importante è non pretendere che siano vere poesie o saggi di filosofia.
Voglio raccontare come ho seguito il primo festival di Sanremo: un piccolo buco sul passato remoto.
Ero a pensione a Campobasso per le scuole medie che non c’erano in paese. Una soffitta al quinto piano
(non ascensore, non luci per le scale) con due camere a tetto spiovente verso basse finestre, adiacenti la
carbonaia dei signori di sotto. Marito e moglie senza figli. Lui facchino, caricava ferro, seconda elementare.
Lei analfabeta, intelligente, popolana, bassa grassottella, chiacchierona, fantasiosa, dal passato sofferto: la
mia seconda madre tanto diversa dalla mia vera madre ma dalla quale ho imparato molto. I primi anni mi
portava sempre con sé e spesso andavo a studiare in un’osteria dei cui padroni era amica. Studiavo su un
tavolo e ascoltavo l’interpretazione dei sogni e i numeri al lotto. Giocavano sempre un terno (8,65,90) su
tutte le ruote che non uscì mai. Era fiera che io andassi bene a scuola come se fossi stato suo figlio:
”Facciamo vedere a questi signori di sotto come sono i figli degli operai” ripeteva. Quella frase semplice e
retorica indicava l’inizio della riscossa delle classi inferiori.
Quella sera lui era tornato come sempre stanco e bevuto (gli pagavano da bere per accelerare a
caricare i camion), spalle curve dalla fatica e andatura incerta. Una pasta d’uomo ma irascibile quando
aveva tanto vino in corpo. Come sempre mangiò e andò subito a letto. La radio era su un mobiletto tra la
credenza e la loro camera da letto, senza porta. Una vecchia radio grande come erano allora quelle a
valvola, con un bel suono caldo. Mi ero già preparato la branda accanto al tavolo della cucina e vicino al
tubo del riscaldamento dei signori di sotto e ascoltavamo il festival tenendo basso il volume ma a lui dava
fastidio. “Stutat sta cazz’e radio” urlava. Non la spegnevamo ma abbassavamo il volume. Nilla Pizzi dalla
voce senza fronzoli, Achille Togliani melodioso e bello (ma non c’era la tv. Lo vidi anni dopo a Roma davanti
al cinema-teatro Jovinelli decaduto e ossigenato), orchestra Angelini. Tutto qui. “Stutat sta cazz’e radio”
continuava a sgridarci e alla fine ci siamo appiccicati con l’orecchio alla radio lei da una parte io dall’altra
tenendo il volume al minimo infastiditi dal russare di lui. In quella posizione siamo rimasti sino alla fine, a
mezzanotte. Grazie dei fior. Poi la mattina come le altre: io ripiego le lenzuola e le coperte, richiudo la
branda, la copro e mi preparo per andare a scuola. Lui si lava al lavandino di cemento della cucina (il bagno
era un angolo separato della cucina con solo il vater di cemento, avevo il compito di dividere i fogli dei
giornali e appenderli a un chiodo); si veste; prima di uscire ascolta senza reagire le invettive di lei: ”Facchino
ubriacone morirai presto”. Non risponde, apre la porta le fa una piccola carezza sul viso e se ne va a
caricare ferro.
In quella soffitta sono stato sino a 18 anni studiando sul tavolo di cucina, sono cresciuto fisicamente e
culturalmente. Ero un privilegiato, i miei compagni del paese non potevano studiare. Avevo avuto genitori
lungimiranti ed ero figlio unico. In quella soffitta stavo bene e ho imparato a vivere, ad apprezzare i beni
della vita e a non correre dietro al superfluo. Ho imparato che la scuola è importante e devi fare meglio che
puoi.
E là ho continuato a seguire il Festival di Sanremo alla radio. Dopo qualche anno che andai via cambiarono
casa. Andai sempre a trovarli. Lei morì oltre gli ottant’anni. Verso i settanta era andata a una scuola serale
per imparare a leggere e scrivere: “Almeno per saper fare la firma”, mi disse. I capelli, grigi quando la
conobbi, erano diventati bianchi ma sempre ondulati e raccolti alla nuca. Il suo orgoglio. Lui le sopravvisse
qualche anno. Smise di bere quando smise di lavorare. Io ero a Roma. Sempre al quinto piano, senza
ascensore e senza riscaldamento. Ma stavo bene così, mi ci ero abituato e mi sembrava del tutto normale.
Scendevo a piazza Vittorio e Roma mi sembrava mia. Seguivo ancora il festival ma con meno entusiasmo.
Stava cambiando la società e con essa il mondo della canzone: quella all’italiana figlia delle antiche romanze
cedeva il posto al blu dipinto di blu di Modugno a braccia aperte. Spuntava Elvis e facevano capolino Mina e
Adriano. Il festival si rinnovava sia pure lentamente sino a diventare un contenitore consumistico che crea e
distrugge: quasi nessuno ricorda le canzoni dell’anno precedente e spesso il festival non ospita i prodotti
migliori. Ho provato
C'è un balcone nella mia Larino,, non lontano dalla piazza del monumento dei caduti in guerra che ha alle spalle il palazzo ducale, che tutte le volte che lo vedo mi riporta indietro nel tempo e alla canzone "Grazie dei fior", che proveniva da una radio accesa nel salotto della casa di un maestro che frequentavo perché curava la mia corrispondenza con gli alunni di una università delle isole Hawaii. un privilegio per me che ero orfano di guerra. Poi ho saputo che la voce era di Nilla Pizzi..
RispondiElimina