Disagio giovanile: che fare?

di Umberto Berardo
L’adolescenza credo sia una delle fasi della vita nella quale si manifesta con particolare evidenza il conflitto interiore tra la spinta a divenire autonomi, liberi, indipendenti, in una parola adulti, e il desiderio di sentirsi ancora legati alla condizione di protezione psicologica e umana dell’infanzia. Questo malessere dell’età evolutiva, legato all’inadeguatezza di decisioni personali e alla dipendenza da soggetti o elementi esterni alla propria personalità, è ciò che crea il cosiddetto disagio giovanile ovvero il non essere a proprio agio nell’espressione della propria coscienza e intelligenza per una debolezza di tipo caratteriale o per la soggezione a condizionamenti esteriori. Ciò esprime l’assenza o almeno la limitatezza di autonomia di pensiero, la difficoltà nell’autogestione del comportamento rispetto alle relazioni sociali, nell’espressione e nel controllo dei sentimenti e delle emozioni ma anche nell’acquisizione d’impegno e responsabilità per la propria maturazione e per la soluzione dei problemi comuni. L’ansia dei giovani è anche legata alla precarietà del lavoro e al conseguente venir meno di qualsiasi sogno o progetto davvero realizzabile per il futuro. Quando si vive in una tale situazione è del tutto evidente che possano insorgere modi di vivere dannosi per sé stessi ma anche per gli altri. L’espressione del disagio genera allora depressione, dispersione scolastica, isolamento dalla collettività con la chiusura nel mondo virtuale o il rifugio negli stupefacenti, comportamenti devianti come la mancanza di rispetto delle persone o dell’ambiente, l’autolesionismo, il bullismo, il ciberbullismo e disturbi nell’alimentazione come anoressia o licoressia e in taluni casi purtroppo anche omicidi e suicidi. Perfino nei rapporti sentimentali, come testimonia in continuazione la cronaca, se insorgono forme subdole di egoismo, la relazione può diventare tossica e scatta allora una perversione che genera violenza, frutto soprattutto della subcultura machista, la quale sta generando mostri che trasformano l’amore da dono di sé a senso di possesso della donna per la quale scompare ogni forma di libertà. Ansia, avvilimento, paura ma anche angoscia sono gli stati d’animo attraversati da quanti vivono una tale condizione psicologica. Questa fragilità giovanile è stata messa ultimamente in relazione alla recente pandemia, ma in realtà essa ha solo acuito un fenomeno sempre esistito e che oggi arriva a toccare in alcune gravi manifestazioni perfino il 40% degli adolescenti. L’Italia ad esempio condivide con l’Olanda il primato nell’uso di stupefacenti. La ricerca delle cause di questo disagio giovanile non è semplice. La marginalità e la conseguente solitudine che si possono vivere per ragioni familiari, economiche e sociali sono sicuramente tra i moventi fondamentali del fenomeno. Certamente la cultura individualistica fondata sul principio della competizione di cui i giovani sono sempre più figli, lasciando posto a prospettive meramente utilitaristiche, non aiuta la solidarietà, le relazioni sociali e una realizzazione personale in funzione del bene comune. La crisi delle religioni e delle ideologie contribuisce poi a rendere i ragazzi orfani di punti di riferimento rappresentati un tempo da profondi valori di carattere spirituale, civile e sociale posti alla base di un’etica condivisa che dava indubbiamente sicurezza nelle scelte e nei comportamenti. Se il male appare quasi una normalità e non si sa più riconoscere il bene, dobbiamo preoccuparci anzitutto per il fallimento del processo educativo. Credo che l’emersione del disagio psicologico derivi in particolare da un’assenza di attenzione per i giovani da parte di molte istituzioni sociali come la famiglia, la scuola, la Chiesa, ma anche da un’assoluta mancanza di politiche sociali degne di questo nome.
I genitori, sempre più proiettati alla ricerca di scopi edonistici e utilitaristici, riducono talora il rapporto con i figli a momenti sporadici senza alcuna funzione educativa che spesso sfugge loro anche per mancanza di credibilità e autorevolezza. La difesa eccessiva ad ogni costo di comportamenti talora errati dei figli porta tanti papà e mamme ad essere corresponsabili di atteggiamenti devianti dei propri ragazzi. Facendo prevalere un sapere di carattere scientifico e tecnologico funzionale alla creazione di una preparazione per introdurre nuove risorse umane nel processo economico, la scuola poi rischia di dimenticare che la sua funzione prevalente è la maturazione complessiva della personalità degli allievi che veda la loro formazione intellettuale, ma anche quella civica, affettiva, sentimentale che hanno bisogno sicuramente del patrimonio della tradizione culturale umanistica. Se non diamo sicurezze ai giovani nelle abilità logiche, nello spirito critico e nella capacità autonoma di ricerca come nella soluzione dei problemi, non potremo certo contribuire a generare nei ragazzi fiducia nelle proprie competenze intellettive per essere capaci di leggere la realtà che li circonda, di gestire emozioni e stati d’animo e di compiere scelte responsabili. Lo stesso mondo dei mass media e di internet gioca un ruolo molto negativo nella formazione dei giovani specialmente quando ne comprime la libertà e lo spirito critico spingendoli in realtà virtuali deviate e devianti. La stessa esposizione sui social al giudizio altrui può creare ansie soprattutto in chi manca di un’adeguata capacità di confronto. Intanto occorre a mio avviso smettere di seminare violenza attraverso ogni forma di comunicazione fingendo poi di scandalizzarsi davanti alla sua diffusione quando ci tocca da vicino o temiamo che possa farlo. I giovani chiedono alla famiglia, alla scuola e alle religioni che tornino a proporre risposte comprensibili alla loro ricerca di senso delle proprie azioni e più in generale della vita. Il teologo Giannino Piana, da poco deceduto e particolarmente esperto di bioetica, ha scritto in merito che il disagio giovanile non può essere visto come una malattia cui far seguire soluzioni mediche e psicologiche, ma va affrontato soprattutto sul piano della prevenzione. Dunque certamente occorre pensare anche a sistemi di deterrenza in caso di reati, ma l’analisi del fenomeno è davvero più complessa. Questo significa anzitutto ricostruire un processo educativo capace di uscire da aspetti edonistici e tecnocratici per orientare i giovani, come sostiene con forza lo psicanalista Massimo Ammanniti, alla conquista di strumenti per una comprensione critica della realtà economica, sociale e politica e di maturare l’autostima come capacità di superare i propri limiti affrontando con razionalità e responsabilità i problemi esistenziali. Senza fughe in avanti superficiali e prive di fondamenti scientifici e pedagogici, un tale approccio comporta anzitutto la necessità di colmare il vuoto formativo che esiste sul piano sentimentale e affettivo nella famiglia e nella scuola. La prima deve porsi sul piano educativo con una presenza più attiva e continua che non è fatta tanto di norme da trasmettere, ma di esempi di vita da dare. Chi vive solitudine e difficoltà relazionali deve prendere coscienza sull’importanza di aprirsi subito nelle difficoltà al dialogo con i propri familiari. Lo sforzo di tutte le agenzie culturali ed educative dev’essere poi un impegno convergente alla ricerca di un terreno comune intorno alle norme di vita. Poiché la condizione giovanile occupa oggi un periodo abbastanza lungo della vita, non è sufficiente creare centri antiviolenza con supporto di numeri telefonici come il 1522, ma è necessario che si programmino delle politiche sociali in tale direzione soprattutto garantendo in questa fase dell’esistenza dignità nella cultura e nel lavoro. La presenza della figura dello psicologo a scuola sembra ormai un’esigenza condivisa, ma essa non basta se non si opera sul piano educativo a maturare le capacità del soggetto per affrontare i compiti evolutivi nella transizione verso l’età adulta. Non si tratta, come molti paventano, di aggiungere altre discipline all’insegnamento, ma di rimodularlo anche in funzione di nuovi obiettivi. Le abilità da conquistare sono anzitutto quelle di sapersi adattare ai cambiamenti somatici e psichici, di accettare le pulsioni e saperle gestire, d’istaurare rapporti affettivi rispettosi con i coetanei, d’integrarsi nei gruppi di coetanei mantenendo libertà e autodeterminazione, di stabilire interazioni critiche con la realtà sociale, di formarsi un sistema di valori solido e di saper progettare con razionalità il proprio futuro. Il raggiungimento di tali finalità consente sicuramente di guidare gli allievi nel conseguimento dell’autocontrollo e dell’autostima. Sono compiti pedagogici e didattici per i quali forse occorrerebbe aggiornare le competenze del corpo docente.
Il problema del disagio giovanile in ogni caso non si risolverà fino a quando non ricreeremo relazioni sociali reciprocamente rispettose e fondate su rapporti amichevoli veri da poter vivere in un benessere di gruppo con l’aiuto di attività sportive e artistiche. In tale direzione le politiche sociali sono del tutto assenti poiché anche nello sport e nelle arti i giovani non sono più attori, ma spettatori di attività professionistiche create solo per il business. Occorre allora un vero cambiamento di paradigmi nello studio e nella gestione del fenomeno non solo sul piano psicologico, ma anche culturale e sociale. Il metodo islandese Youth in Iceland per tenere occupati i ragazzi e liberarli dalle dipendenze e da stati di ansia, ora ripreso dall’Unione Europea, può aiutare molto in tale direzione con il suo programma di regolamentare meglio la vita dei giovani nelle ore diurne e notturne, di proibire l’acquisto di alcool e tabacco ai minorenni e di diffondere attività sportive e artistiche non competitive come tante esistevano anche da noi in quel livello dilettantistico sempre più marginalizzato. Dal 1992 l’esperimento islandese, che si è ispirato agli studi dello psicologo statunitense Harvey Milkman, ha raggiunto davvero risultati apprezzabili nel cambiamento degli stili di vita dei giovani e delle loro relazioni familiari e sociali. Smettiamo allora di piangere ipocritamente sui drammi che il disagio giovanile crea e da adulti responsabili prendiamo finalmente coscienza del nostro dovere educativo di adulti in tutte le istituzioni in cui siamo coinvolti.

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