Sanità: Agire sulle cause, rilanciare la sanità pubblica

di Italo Di Sabato
Il 12 maggio 2022 presso la sala Celestino V di Campobasso si è tenuto un convegno organizzato dal comitato promotore della “Coalizione Civica Molise” sul tema “La medicina territoriale: la persona al centro del sistema”. Interessanti sono stati i contributi portati a riguardo dai Dott. Mino Dentizzi, Leo Terzano e Sergio Pastò. Tutti gli interventi, anche durante il dibattito, hanno evidenziato il grave stato di difficolta in cui versa la sanità pubblica nella nostra regione. Ma nessuno ha evidenziato e posto al centro dell’attenzione le cause di tutto questo. Penso che se vogliamo affrontare seriamente gli effetti della grave crisi del servizio sanitario pubblico, bisogna innanzitutto ricercare le cause e da li intervenire. Già prima della pandemia, la crisi economica cominciata nel 2008-2009, e le conseguenti politiche di austerità, avevano messo sotto forte pressione il servizio sanitario, stretto tra l’aumento dei bisogni di una popolazione sempre più anziana e stringenti vincoli di bilancio. La crisi si è sommata a un orientamento generale che ha fatto del contenimento della spesa pubblica l’obiettivo principale della politica sanitaria. Tale processo ha radici negli anni novanta, quando sono cominciate “l’aziendalizzazione della sanità” e l’ampliamento della sfera del mercato. Negli ultimi anni queste dinamiche si sono intensificate, con l’aumento dei costi delle prestazioni a carico degli utenti (i ticket) e i tagli alle risorse di fatto disponibili per il Servizio sanitario nazionale (Ssn), aumentando il divario nella spesa sanitaria rispetto ad altri paesi europei. Elaborando i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), emerge che tra il 2008 e il 2019 la spesa pubblica pro capite per la sanità in Italia è aumentata del 15,8%, contro il 27,2% del Regno Unito, il 36,5 per cento della Francia o il 47,4 per cento della Germania. L’aumento limitato della spesa, inadeguato rispetto ai bisogni e all’incremento dei costi legato all’introduzione di nuove tecnologie, si è tradotto in tagli in tutti gli ambiti. Per esempio i posti letto ospedalieri sono passati da 3,8 a 3,2 per mille abitanti, senza essere compensati da un aumento dei servizi territoriali. La pandemia ha mostrato tutte le fragilità di un sistema che era già insostenibile. La sua debolezza è risultata evidente rispetto al personale sanitario e sociosanitario, dove c’è stata una riduzione dei dipendenti, passati da 693.600 a 648.507 (-6,5%) tra gli anni 2009 e 2018, e un forte innalzamento dell’età media senza l’ingresso di nuovi assunti. Per tutto lo scorso decennio i carichi di lavoro sono aumentati mentre le retribuzioni sono rimaste bloccate. La debolezza dell’assistenza sanitaria territoriale, è stata uno dei fattori principali che hanno aggravato la pandemia. C’era una volta il Servizio Sanitario Nazionale Il Covid ha messo in evidenza la fragilità della sanità pubblica e la progressiva deriva privatistica del Servizio Sanitario Nazionale, che non a caso qualcuno comincia a definire “sistema” e non “servizio”: un termine che sottintende l’allargamento dell’assistenza anche ad altri soggetti. La salute come bene comune, rappresentata storicamente dal Servizio Sanitario Nazionale, ha subìto in questi ultimi quarant’anni un processo di ridimensionamento che la allontana sempre più dal mandato costituzionale. Partirei da un breve ma doveroso riassunto cronologico per evidenziare la progressiva disapplicazione dell’art 32 della Costituzione dal momento dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale: 1) Il 23 dicembre 1978 nasceva il Servizio Sanitario Nazionale e la creazione delle Unità Sanitarie Locali: la legge, la 833, fu varata dal Governo Andreotti e fu il successo storico del primo Ministro della Salute donna, Tina Anselmi; 2) il decreto legislativo n. 502/1992 (Governo Amato, ministro De Lorenzo) avviò la regionalizzazione della Sanità e istituì le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere: ha inizio il processo di aziendalizzazione della sanità; 3) il decreto legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy Bindi, anche noto come riforma ter (Governo D’Alema, ministra affari regionali Katia Belillo, ministra solidarietà sociale Livia Turco) confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di assistenza garantiti dal SSN; 4) riforma del Titolo V, legge costituzionale n. 3/2001 (approvato dal Governo Amato2 e confermato col 64% dal referendum sostenuto dal centro-sinistra mentre governava Berlusconi) alle Regioni venne riconosciuta autonomia legislativa anche per la sanità: fu l’avvio della famigerata autonomia differenziata, con la regionalizzazione della sanità e la nascita di 21 Sistemi Sanitari Regionali differenti, e il padrino che tenne a battesimo l’autonomia differenziata fu purtroppo il centro-sinistra. Il Servizio Sanitario Nazionale. La legge n. 833 fu una legge monumentale che assorbì i debiti delle diverse mutue e istituì un sistema universale e illimitato di cure. I principi fondanti erano i seguenti: universalità, uguaglianza, gratuità, globalità dei servizi offerti, solidarietà, democraticità, controllo pubblico e unicità (niente privati). Questa legge rispondeva pienamente alla Costituzione, che all’art. 32 definisce la salute come bene comune, anzi come diritto fondamentale: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. La salute quindi non è solo un fondamentale diritto individuale, ma anche un interesse della collettività. Sfugge talvolta che la salute della popolazione non solo migliora le condizioni individuali e prolunga l’aspettativa di vita, ma crea anche benessere generale e migliora lo stato economico del paese. Non un costo quindi ma una risorsa. L’aziendalizzazione della sanità. Nel 1992 il Governo Amato (annata di grandi privatizzazioni dei beni comuni e degli enti pubblici, con Draghi direttore generale del ministero del Tesoro ad eseguire le operazioni del “dream team” che smantellò la cosa pubblica: Amato, Ciampi, Dini e Draghi) abolì le USL e istituì le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere. Introdusse quindi una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata all’effettiva realizzazione delle entrate e non poteva più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni. Cosa comportò l’istituzione delle Aziende Sanitarie, cosa produsse l’introduzione del concetto di aziendalizzazione? Due conseguenze principali. La prima, e la più importante, è che l’obiettivo principale dei Direttori Generali non è più tanto la riduzione delle patologie o la risposta sanitaria ai bisogni di salute, quanto il pareggio di bilancio (obiettivo cui peraltro è legato il loro premio retributivo). Da dire, anche, che il pareggio di bilancio premia anche tutto il personale con l’aumento della retribuzione pari all’1% del bilancio stesso. Va a farsi benedire quindi la concezione legata al raggiungimento di obiettivi sanitari, motivazione principale della legge n. 833 e quindi dell’obiettivo di tutela della salute contenuto nell’art. 32 della Costituzione. La seconda conseguenza è la verticalizzazione del sistema sanitario. I Direttori Generali, emanazione diretta del potere politico (ma questo lo sarà di più con la successiva gestione di sovranità alle regioni) hanno un potere quasi assoluto, persino nella nomina dei primari. L’ospedale è già per sua natura una struttura gerarchica e l’aziendalizzazione accentua il potere decisionale del Collegio di Direzione e la verticalizzazione dei Dipartimenti. La creazione del secondo pilastro sanitario assicurativo. Il decreto legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy Bindi confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di assistenza garantiti dal SSN, vietati dalla legge del 1978. Rosy Bindi è tuttora considerata un baluardo contro l’ondata neoliberista dei governi di fine anni ‘90. Purtroppo a molti sfugge il fatto che la sanità integrativa, il cosiddetto “secondo pilastro” della sanità, liberato dal decreto del 1999 e cavalcato dalle grosse compagnie assicurative, è parte viva della spesa sanitaria privata. Se la spesa sanitaria pubblica nazionale raggiunge i 120 miliardi di euro (in aumento solo nell’ultimo biennio, dopo essersi assestata per anni sui 133-115 miliardi), quella privata supera i 40 miliardi, di cui almeno 5 costituiti dal costo delle assicurazioni mediche. E questo costo rappresenta il 15% dell’intera spesa sanitaria privata. Il secondo pilastro è in piena espansione, e fa gola alle compagnie assicurative, in quanto, per il momento, solo il 16% della potenziale platea di clienti usufruisce di una polizza medica. Si calcola che le assicurazioni private hanno davanti un mercato potenziale di almeno 50 miliardi di euro da conquistare. Le conseguenze rischiano di essere devastanti: la spesa sanitaria globale e la spesa sanitaria pro capite aumenteranno progressivamente; verrà cristallizzata la caratteristica privatistica di alcune cure (dentistiche, oculistiche, fisioterapiche ecc) impedendone la reintroduzione e la diffusione nel pubblico; aumenterà la disparità di accesso alle cure, creando una sanità di serie A per i ceti più abbienti e di serie B per gli altri. Il rischio è quindi quello di un ritorno alle mutue? In realtà lo scenario è molto più preoccupante. Non ritorneremo al sistema mutualistico (le vecchie mutue erano bene o male gestite da enti pubblici) ma a qualcosa di peggio, perché in mano esclusivamente a compagnie private, il cui unico obiettivo è il profitto. Una volta raggiunto il regime di oligopolio, le compagnie potranno ulteriormente aumentare le tariffe e la restrizione delle prestazioni più costose, con l’esclusione di fasce sempre più numerose di pazienti “a rischio” di necessità di cure onerose (modello americano). Aumenteranno quindi le fasce di popolazione escluse dalle cure o che rinunceranno alle cure. Tutte queste risorse (5 miliardi di euro oggi, ma molti di più domani) andrebbero invece impegnate nel miglioramento della sanità pubblica, per l’assunzione del personale sanitario e la modernizzazione dei presidi diagnostico-terapeutici. La frantumazione della sanità pubblica: dal Servizio Sanitario Nazionale ai 21 Servizi sanitari regionali. Con la riforma del Titolo V del 2001 (modifica degli articoli 116 e 117 approvata da referendum costituzionale) la tutela della salute divenne materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie. La riforma costituzionale federalista della sanità (cui paradossalmente la Lega vent’anni fa votò contro) completò l’opera di smantellamento della riforma del 1978 con la regionalizzazione della sanità italiana e l’adozione della quota capitaria ponderata (numero di abitanti, anzianità della popolazione e deprivazione sociale, quest’ultima aggiunta in seguito ma mai applicata), l’algoritmo utilizzato per distribuire il fondo sanitario nazionale alle regioni: grazie a questo calcolo, le regioni del sud più bisognose in termini di assistenza sono state sotto-finanziate rispetto a quelle del nord. Le conseguenze immediate della riforma del Titolo V sono state il sotto-finanziamento del Sud, che mediamente ha una popolazione più giovane (la considerazione della deprivazione sociale, la minore forza economica e la diseguale base di partenza non sono mai state applicate); l’accentuazione della migrazione sanitaria sud-nord; la creazione di 21 sistemi sanitari regionali diversi; il perverso sistema, tipicamente aziendale, delle “fughe” e “attrazioni” dei pazienti con relativi rimborsi economici tra regione e regione; la mancata validità dei documenti sanitari sul territorio nazionale (dalle esenzioni alle ricette); la corsa alla privatizzazione di alcune regioni. Dal punto di vista costituzionale si è disatteso l’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”). Il disastro della regionalizzazione è emerso tragicamente all’esplodere della pandemia del Covid 19, con protocolli e sistemi sanitari a tutela variabile, in base alla diversa organizzazione e al grado di privatizzazione. Vere e proprie spinte secessioniste si sono manifestate nel corso dell’ultimo tormentato biennio, palesemente in contrasto con l’incipit dell’art. 5 (“La Repubblica è una e indivisibile”). Insomma, nel corso degli ultimi 40 anni il Sistema Sanitario Nazionale, che recepiva il concetto costituzionale di salute come bene comune fornendo un’assistenza pubblica, universale e gratuita per gli indigenti, ha subìto duri colpi legislativi che ne hanno ridimensionato i propositi iniziali. Come e da chi è stato smantellato il Servizio sanitario nazionale italiano Se c’è un elemento che la pandemia di Covid19 ha involontariamente messo in luce è l’inadeguatezza del Servizio sanitario nazionale (SSN), da imputarsi ai sistematici tagli di spesa effettuati in questo settore in particolare tra il 2010 e il 2019: in questo periodo sono stati effettuati definanziamenti per un totale di 37 miliardi di euro. Mentre l’incremento di risorse stanziato negli stessi anni è stato pari a 8,8 miliardi, una cifra inferiore al tasso d’inflazione che ha prodotto di fatto una riduzione del budget: secondo i dati dell’osservatorio Gimbe, infatti, a fronte di una crescita annua della spesa sanitaria pari allo 0,9%, l’inflazione media annua è stata pari all’1,07%. Il definanziamento pubblico alla sanità coincide con l’inizio della grande stagione italiana della “spending review”, inaugurata dal governo di Mario Monti nel 2011 e proseguita con i governi successivi. La revisione della spesa pubblica, ossia i tagli alle varie voci di spesa del bilancio statale, è il risultato di un’impalcatura economica disfunzionale per cui i governi sono costretti ad attuare politiche fiscali restrittive sia per rispettare i vincoli imposti dai parametri di Maastricht, che per compensare le spese sugli interessi del debito pubblico: il liberismo selvaggio che si è imposto a partire dagli anni Ottanta, infatti, ha condotto ad una completa preminenza dei mercati sugli Stati, per cui sono gli operatori privati a determinare i tassi di interesse sui titoli pubblici, facendo lievitare il debito. Questa impostazione dipende soprattutto dalla mancanza di una banca centrale pubblica che garantisca tali titoli: la Banca Centrale Europea (BCE) non svolge, infatti, questo ruolo, se non in condizioni di emergenza attraverso misure di politica monetaria non convenzionali come il Programma di acquisto di emergenza pandemico (PEPP), messo in atto in seguito alla pandemia del 2020. Per questa ragione, l’Italia è in avanzo primario da più di vent’anni, ossia tassa più di quello che immette nell’economia reale: tutto ciò è il risultato di una serie di decisioni politiche che sono iniziate negli anni Ottanta e che hanno condotto a un’impostazione economica fondata sull’austerità, in nome del culto dei “conti pubblici in ordine” e della fondamentale subalternità ai mercati. Tra i maggiori esponenti in Italia di questa “scuola di pensiero” economica vanno annoverati, tra gli altri, proprio Mario Monti e Carlo Cottarelli. Quest’ultimo ex dipendente del Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione finanziaria internazionale che rappresenta l’anima stessa del liberismo. Non stupiscono, dunque, i tagli effettuati al comparto sanitario cha fanno parte, del resto, di una lunga lista di definanziamenti che hanno avuto come effetto la progressiva erosione dello Stato sociale. Il definanziamento al SSN dal governo Monti in avanti Il Ministro della Sanità del governo Monti, Renato Balduzzi, in una conferenza stampa del dicembre 2012, dichiarò esplicitamente che la sommatoria di varie manovre finanziarie relative al periodo 2010 – 2012 avrebbe sottratto al SSN per il periodo 2012 – 2015 una cifra di circa 25 miliardi di euro, mentre la Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) del 2013 prevedeva la riduzione complessiva della quota di PIL destinata alla sanità pubblica dal 7,1 al 6,7%. Il governo Letta proseguì con la medesima logica di riduzione della spesa sanitaria finalizzata al cosiddetto consolidamento del bilancio pubblico: così la Legge di stabilità del 2014 ridusse il finanziamento alla sanità di oltre un miliardo di euro. La riduzione dei fondi al medesimo settore non accennò a diminuire nemmeno col governo Renzi che, con la finanziaria del 2015, chiese alle regioni un contributo alla finanza pubblica di 4 miliardi di euro. Gli enti locali, impossibilitati a stanziare la cifra richiesta, rinunciarono all’incremento del FSN di oltre due miliardi di euro. Complessivamente, nel periodo 2015 – 2019, per esigenze di finanza pubblica sono stati sottratti alla sanità oltre 12 miliardi, riducendo di molto le risorse calcolate rispetto al fabbisogno complessivo. In particolare, i fondi promessi e poi non erogati dai vari governi ammontano alle seguenti cifre: 8 miliardi non stanziati dal governo Monti (Finanziarie 2012 – 2013); 8,4 dal governo Letta (finanziaria 2014); 16,6 dal governo Renzi (Finanziarie 2015 – 2016 – 2017); 3,1 dal governo Gentiloni (Finanziaria 2018) e 0,6 dal governo Conte (Finanziaria 2019). Infine, come riporta il rapporto della Fondazione Gimbe, “il DEF 2019, a fronte di una prevista crescita media annua del PIL nominale del 2,1% nel triennio 2019-2021 e del 2,5% per il biennio 2020-2022, riduce progressivamente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022”. Strutture di ricovero, posti letto e tagli al personale È evidente che la sistematica sottrazione di risorse al SSN ha avuto l’inevitabile conseguenza di diminuire notevolmente le strutture ospedaliere, i posti letto e il numero del personale a disposizione dei pazienti. Secondo la Fondazione The Bridge, tra il 2007 e il 2017, le strutture di ricovero sia pubbliche che private sono diminuite rispettivamente del 22% e dell’11%, mentre la diminuzione complessiva dei posti letto – tra strutture pubbliche e private – nel medesimo periodo è stata pari a – 35.797. ciò significa che nel 2017 si contavano circa 3,5 posti letto ogni mille abitanti, a fronte di una media europea di cinque posti letto per mille abitanti, secondo i dati Eurostat e Ocse. Inoltre, il cosiddetto “blocco del turnover”, definito con la legge n. 296 del 2006, ha causato una drastica riduzione del numero complessivo del personale sanitario al fine di contenere i costi della spesa pubblica: attraverso questo sistema, i dipendenti in età pensionabile semplicemente non vengono sostituiti da personale più giovane. Ciò non implica solo il problema della riduzione del numero di medici e infermieri, ma anche quello dell’aumento della disoccupazione o della fuga all’estero della fascia più giovane della popolazione. Si attesta, dunque, che tra il 2007 e il 2019 vi è stata una diminuzione del personale ospedaliero del 7%, mentre i medici sono diminuiti del 6% e gli infermieri del 5%. Nel rapporto della Fondazione si legge che “questa riduzione è da addebitarsi alle misure di contenimento della spesa previste con la Legge 191/2009, sbloccate solo nel 2019”. Nel complesso, in Italia il numero totale di medici per abitante è superiore alla media dei Paesi UE, ma il numero di medici ospedalieri e di medici di famiglia è in costante calo, mentre il numero di infermieri impiegati risulta inferiore alla media dell’Unione Europea. La privatizzazione del sistema sanitario A fronte del progressivo smantellamento del sistema sanitario pubblico, si registra, invece, la volontà crescente di spingere sulla privatizzazione di aziende e servizi ospedalieri, seguendo il verbo neoliberista della supremazia del mercato, della concorrenza e della deregolamentazione: si tratta di un pregiudizio ideologico – smentito dai fatti – secondo cui, se forniti da imprese private, i servizi pubblici sarebbero più efficienti. Il DDL Concorrenza, approvato dal governo Draghi il 4 novembre 2021, è orientato proprio in questa direzione: incoraggia la privatizzazione di tutti i settori pubblici, con lo scopo di ridimensionare il ruolo dello Stato e di favorire la penetrazione del mercato nel terreno dei servizi pubblici, così come esplicitato dallo stesso DDL: “Il testo interviene sulla rimozione delle barriere all’entrata dei mercati, sui servizi pubblici locali, su energia e sostenibilità ambientale, sulla tutela della salute, sullo sviluppo delle infrastrutture digitali e sulla rimozione degli oneri e la parità di trattamento tra gli operatori”. Per quanto riguarda l’ambito sanitario, il Garante della Concorrenza e del Mercato, Roberto Rustichelli, ha espresso la necessità “dell’adozione di misure che garantiscano una maggiore apertura all’accesso delle strutture private, all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate con il SSN” e di “una più intensa integrazione tra pubblico e privato”. A smentire il luogo comune secondo cui una sanità del tutto o in parte privata sarebbe più efficiente di quella pubblica, vi è il caso della sanità lombarda: in Lombardia, regione all’“avanguardia” nei processi di privatizzazione della sanità fin dai tempi di Formigoni, la rete dei servizi territoriali pubblici è stata scardinata, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private. Quanto questo modello di sanità sia inadeguato e inefficace è stato dimostrato dall’incapacità di fronteggiare l’emergenza pandemica. Lo smantellamento del sistema di assistenza territoriale ha comportato un’enorme pressione sugli ospedali che non si sono dimostrati in grado di fronteggiare l’onda d’urto, a causa di carenza di posti letto in terapia intensiva e di personale sanitario. La logica delle privatizzazioni sta dunque sacrificando la salute pubblica sull’altare del profitto e sarà ulteriormente consolidata dalle riforme previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che, coerentemente con le indicazioni della Commissione europea, ha inserito la concorrenza tra le cosiddette “riforme abilitanti”, ossia quelle riforme essenziali per accedere ai fondi del Next Generation EU. Il PNRR salute e la telemedicina Il PNRR prevede sei grandi aree di intervento, chiamate “pilastri”, a cui andranno destinati i fondi: nonostante questo piano d’intervento si sia reso necessario a seguito degli sconvolgimenti economici provocati dall’emergenza pandemica, quello sanitario è l’ambito a cui vengono destinate meno risorse rispetto alle altre aree. Nel dettaglio, il programma di riforma della sanità dispone di un fondo complessivo di 15,63 miliardi – pari all’8,2% del totale – e mira ad una trasformazione radicale delle terapie e dell’assistenza ai pazienti improntata al potenziamento della digitalizzazione e della telemedicina. Il programma si articola in due componenti: “Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” ed “Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale”. La prima componente dedica 4 miliardi di investimento alla casa come primo luogo di cura e alla telemedicina, intesi come strumenti per ridurre il ricorso alle ospedalizzazioni: con la telemedicina, ossia la terapia a distanza per mezzo di strumenti informatici, il rischio è che i pazienti vengano trascurati a causa della carenza di personale e che venga a mancare il rapporto diretto tra medico e paziente, senza considerare che ad oggi è ancora pressoché sconosciuta l’efficacia di questo tipo di terapia medica. Infine, non è prevista alcuna quota per incrementare il personale ospedaliero e in particolare gli infermieri di cui il SSN risulta carente. Al centro della seconda componente, invece, vi è l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero a cui sono dedicati altri 4 miliardi di euro e che prevede l’acquisto di 3133 nuove apparecchiature ad alto contenuto tecnologico, oltreché il rafforzamento strutturale degli ospedali. Tuttavia, la riconfigurazione del SSN in chiave tecnologica è volta proprio a ridurre non solo i ricoveri ospedalieri attraverso la telemedicina, ma anche lo stesso personale, nell’intento di diminuire ulteriormente i costi della sanità pubblica e aumentare indirettamente i profitti degli operatori privati. Verso la sanità 4.0 e ulteriori tagli di spesa Il PNRR punta ad estendere i metodi e le tecnologie della quarta rivoluzione industriale anche alla sanità, trasformando di fatto anch’essa in un’industria, tant’è che è possibile parlare di “sanità 4.0”. Per poter applicare la telemedicina, infatti, è necessario ricorrere a gruppi di tecnologie innovative quali l’Internet of medical Things, il cloud computing, i Big Data e i Data Science. Tuttavia, proprio l’ammodernamento in senso digitale della sanità risulta l’ennesimo “espediente” per sottrarre ulteriori risorse a questo settore in nome di una presunta maggiore efficienza di tutto il comparto. Già nel 2020, un articolo del Sole 24 Ore annunciava potenziali ulteriori tagli di spesa pubblica a partire dal 2023, previsti nella Relazione tecnica allegata alla legge di bilancio, in cui si leggeva che “dall’anno 2023 per effetto dei processi connessi alla riorganizzazione dei servizi sanitari anche attraverso il potenziamento dei processi di digitalizzazione, si prevede una minore spesa di 300 milioni di euro annui, con conseguente riduzione del livello di finanziamento”. Proprio in questa direzione sembra muoversi lo stesso governo Draghi che non si è distinto dalle amministrazioni precedenti, nonostante la “lezione” impartita dalla pandemia: dall’ultima Infatti, si apprende che negli anni 2022 – 2023 “la spesa sanitaria a legislazione vigente calerà del -2,3% medio annuo per via dei minori oneri connessi alla gestione dell’emergenza epidemiologica”. Se da un lato, dunque, prosegue il definanziamento pubblico alla sanità, dall’altro il PNRR vincola fortemente per gli anni a venire le decisioni in materia sanitaria, andando a plasmare un nuovo modello ospedaliero e di cura sulla scia dell’industria 4.0 e al di fuori di qualunque processo democratico. Infatti, tutte le decisioni vengono prese sulla base di piani programmatici elaborati dagli apparati burocratici europei e messi in atto meccanicamente dalle strutture statali. Il SSN, dunque – già indebolito dal “federalismo sanitario” introdotto con la riforma del titolo V della Costituzione – è ora interamente soggetto alle decisioni di organismi sovranazionali che privilegiano chiaramente la dimensione privata su quella pubblica, tradendone così lo spirito originario sancito dalla Carta costituzionale. In conclusione avrei auspicato che dal convegno del 12 maggio venissero avanzate delle proposte al fine di intaccare le cause e cominciare ad avanzare proposte a partire dalla richiesta di contrattare dal basso il PNNR, co-progettare le Case della Comunità con i Comuni e comunità locali, rivendicare un ruolo attivo sulla salute e la sanità dei Sindaci e degli Assessori al sociale. Bloccare le convenzioni con il privato e l’accreditato chiedendone la reinternalizzazione ad iniziare da specialisti ambulatoriali convenzionati. Un piano straordinario di assunzioni nel Servizio Sanitario Nazionale con concorsi regionali pubblici con modalità uniformi in tutte le Regioni per profili e specializzazioni e graduatorie a scorrimento. Un Contratto unico per la sanità. Il superamento del numero chiuso a medicina e per le professioni sanitarie con una specializzazione per i Medici di medicina generale. Negoziare l’informatizzazione della sanità. Il superamento della figura monocratica e anacronistica del Direttore Generale delle Aziende Sanitarie, la sua contrattualizzazione con concorso su base nazionale e la creazione di contrappesi democratici nelle Aziende Sanitare. Sicuramente non basta, ma non sarebbe poco come primo passo per ricostruire un servizio sanitario pubblico dove la salute è un bene comune

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