Trasformazioni e futuro della lingua italiana
di
Umberto Berardo
Nonostante
l’instabilità e l’evoluzione che tutte le lingue hanno, possiamo dire che fino
agli anni della seconda guerra mondiale quella italiana ha avuto a lungo una
certa standardizzazione legata al mondo letterario e dovuta al fatto che la
percentuale della popolazione che la utilizzava si manteneva molto bassa mentre
soprattutto nel parlato l’uso prevalente era quello del dialetto.
Nel periodo immediatamente
successivo all’unità del nostro Paese gli italiani che se ne servivano erano in
una forbice tra il 2,5 ed il 10 per cento dell’intera cittadinanza.
Il suo uso
allargato si ha intorno agli anni sessanta del Novecento soprattutto grazie
alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e in particolare della
televisione.
I linguaggi
della tivù, dei giornali, della musica leggera e quelli dei sistemi
comunicativi on line stanno producendo delle trasformazioni in una lingua che
alla base rimane quella italiana, ma che manifesta infiltrazioni lessicali,
variazioni normative e processi erosivi determinanti; dunque abbiamo non solo
adattamenti strutturali e funzionali, ma anche veri e propri mutamenti che
rischiano davvero di banalizzarne e deteriorarne l’efficienza, la ricchezza e
la bellezza formale.
Lo scostamento
dai canoni delle norme linguistiche standardizzate sta producendo secondo molti
studiosi un idioma definito neostandard che risulta non solo distante dal
sistema di comunicazione scritta ma talora molto approssimativo.
Le tendenze
evolutive sono di carattere esogeno soprattutto a livello fonetico e lessicale
ed endogeno sul piano normativo.
Il linguaggio
giovanile, quello del web, le varietà regionali come i contatti con le lingue
straniere e in particolare con una sorta di inglese americanizzato stanno
modificando profondamente l’area del linguaggio con l’introduzione di
neologismi, l’italianizzazione di lemmi inglesi (scioccare, filmare), la
formazione di nuovi sostantivi ( sessantottini, internauti ) o aggettivi (vitivinicolo, museale), l’uso di nuove
interiezioni (ops! o wow!) e di recenti termini tecnici nelle espressioni
settoriali (chattare, ipertesto, server ) ma anche di numerose abbreviazioni.
Sul piano
prescrittivo stiamo avendo profondi cambiamenti nella fonologia, nella
morfologia e perfino nella sintassi.
Nel sistema
verbale si osserva una progressiva semplificazione che sta riducendo sempre più
l’uso del congiuntivo e del condizionale a vantaggio dell’indicativo, mentre il
passato remoto è sostituito di frequente dal passato prossimo o imperfetto e il
futuro dal presente.
Un percorso
analogo, come fa notare il linguista Raffaele Simone, si sta verificando con i
pronomi e in particolare con quelli personali in funzione di soggetto o
complemento di termine e con quelli relativi attraverso un uso improprio
soprattutto del “che” fuori dalle norme standard.
Sul piano
sintattico anche nello scritto è evidente un uso di frasi che non rispettano
l’ordine degli elementi costituenti mentre nei periodi c’è una forte riduzione
delle proposizioni subordinate che sta non solo semplificando, ma anche
rendendo più povera l’espressione del pensiero e dei concetti.
Lo stesso uso
della punteggiatura segue criteri molto distanti dalle regole della morfologia
e in alcune forme espressive come quelle sui social ma anche in taluni testi di
narrativa può perfino mancare del tutto.
Specialmente nel
cosiddetto linguaggio digitato abbiamo poi sempre più diffusa la presenza di
acronimi, tachigrafie, abbreviazioni, emoticon e tecnicismi che poi vengono
progressivamente spostati perfino in opere di narrativa.
Se un tale
registro linguistico dovesse proporsi come il futuro della lingua italiana,
credo che qualche riflessione meriti di essere fatta in un orizzonte che
certamente qualche problema potrebbe porre.
Senza negare i
processi evolutivi legati a necessità funzionali di chiarezza comunicativa e di
allargamento di uso nelle forme di comunicazione settoriali, è del tutto
evidente che ogni lingua debba avere un suo modello standard legato in
particolare a norme che necessariamente vanno elaborate da chi ne studia con
competenza elementi, regole, forme e funzioni.
Il rischio che
non si può e non si deve correre è quello di affidare l’uso linguistico alle
classi egemoni del mondo socio-economico e finanziario e tantomeno a chi
pretende di farne un uso slegato da ogni forma di dettame.
Una tale
fragilità in una scrittura, spesso infarcita di errori, narra di una scarsa
propensione per la lettura rilevata dall’ISTAT e di una ormai acclarata
difficoltà delle nuove generazioni ad una comprensione adeguata dei testi che
generano entrambi povertà lessicali e conseguenti problematicità e
inadeguatezze espressive.
L’evoluzione di
una lingua in registri neostandard non può e non deve impedire che di essa
esista un modello standard definito dagli studi linguistici e che naturalmente abbia
un suo razionale ed approfondito insegnamento nelle scuole.
Il sistema espressivo
e l’uso della lingua sono sicuramente alcuni degli aspetti che trasmettono agli
altri il livello di ricchezza umana e culturale della nostra personalità,
perché il possesso e l’uso corretto della parola, come sosteneva don Lorenzo
Milani, è garanzia di libertà, di capacità di definizione del pensiero, di
espressione e di adeguata cittadinanza attiva.
Per tale ragione
sembra importante evitare un’espressione veloce, superficiale, se non
addirittura vuota, frammentata, polemica, sguaiata o scurrile delle proprie idee,
ma diventa sempre più opportuno cercarne invece una serena, riflessiva,
costruita con padronanza linguistica, capacità di ricerca, ricchezza lessicale,
spirito critico e volontà di percorrere gli orizzonti del bene.
In estrema
sintesi abbiamo bisogno di tornare a riacquisire l’importanza che hanno le
parole nella costruzione del pensiero e nella sua espressione ma anche nella
formazione di un io consapevole, libero e criticamente inserito nel confronto degli
ideali e dei modelli comportamentali.
Pur non negando
le relazioni con le altre lingue ed una sufficiente attenzione per la varietà
di uso, ci sono Paesi nei quali il proprio idioma viene seriamente difeso dal
tentativo di renderlo subalterno e scarsamente utilizzato al livello
internazionale.
L’attenzione per
le lingue straniere e il loro uso non solo sono legittimi ma molto apprezzabili
a patto che esse non abbiano alcun effetto sostitutivo della propria o la sua
relegazione a strumento di marginalità.
Molto utili ci
sembrano al riguardo le proposte dell’Accademia della Crusca nel ridare
importanza all’insegnamento ed all’uso della lingua italiana e d’inserire nella
nostra Costituzione la frase «La lingua ufficiale della Repubblica è
l’italiano».
La proposta dell’istituzione
di un Consiglio superiore della lingua italiana non ha trovato fin qui consensi
sul piano politico, ma io credo sia davvero necessario immaginare un organismo
in grado di ridare attenzione per l’insegnamento dell’italiano tra i giovani e
di cercarne canali di uso più largo almeno a livello europeo considerato che al
momento viene utilizzato per lo più solo dalle comunità di emigrati italiani
nelle Americhe ed in alcuni Paesi del nostro continente per un totale che
supera di poco i cento milioni di abitanti sui circa otto miliardi che formano
oggi l’intera umanità.
Tutta questo
comporta ovviamente che alla base ci sia la consapevolezza di una forte
rinascita culturale di massa che sola può alimentare processi educativi anche sul
piano linguistico e conseguentemente pubblicazioni in lingua italiana capaci di
avere larga diffusione a livello mondiale.
Parole sante! e altrettanto le proposte
RispondiEliminaA riguardo desidero riportare l'appello di Francesco Sabatini
Non usate anglicismi o americanismi.
Non “lockdown” ma “chiusura”, non “triage” ma “smistamento”
non “smart working” ma “telelavoro”.
Amate la lingua italiana!
Francesco Sabatini, linguista e presidente onorario
dell’Accademia della Crusca
Nicola D’Ambrosio