Basso Molise laboratorio

 di Pasquale Di Lena



                       In questo tempo di raccolta delle olive e della loro trasformazione in olio ho riflettuto molto su la storia,

                        la cultura e le tradizioni legate alla coltivazione di quella pianta sacra, l’olivo, la più diffusa nel Molise con i suoi 14mila ettari,

                        dei quali ben 4mila abbandonati. Un enorme spreco, con gli olivi che aspettano, da chi governa, di essere considerati

                        per poter dare il loro contributo alla necessità di un rilancio dell’olivicoltura nel Molise e nel Paese.

                        Devono essere state queste riflessioni ricorrenti a portarmi a sognare l’intero territorio del Basso Molise,

mare compreso, che esultava per l’approvazione del tanto atteso Piano di sviluppo regionale, con l’agricoltura bio, naturale, che

tornava, con i suoi olivi, le sue viti, i suoi grani, i suoi  ortaggi e i suoi frutti, ad essere perno di un nuovo tipo di sviluppo.

Sostenibile, in grado di dare sollievo al clima; rassicurare il suolo della conservazione e recupero della propria fertilità;

avere aria e ambienti puliti, non inquinati; produrre e trasformare prodotti atti a dare un cibo sano;

rasserenare il mare.

Principali protagonisti del sogno che stavo facendo: il territorio con i suoi luoghi  e, di questi luoghi,  i suoi testimoni

più importanti. In prima fila le undici varietà di olivo: le tre più diffuse a Colletorto (Oliva nera di Colletorto; Cazzarella e Rumignana);

le due di Rotello (Rosciola e Cellina di Rotello); le tre di Larino (Gentile, Salegna o Saligna  e

Oliva San Pardo, tutt’e tre di Larino); le due di Montenero di Bisaccia (Cerasa e Olivastro di Montenero) e, l’ultima

riconosciuta, di Mafalda (Gentile di Mafalda). A fianco il vitigno Tintilia, accompagnato da Montepulciano, Trebbiano

e altri; pere, mele, sorbi, ciliegie, albicocche e altra frutta; agli, peperoni, catalogne, rape, broccoli, pomodori, cipolle,

senapi, fave, ceci, fagioli, piselli e, ben presenti, i carciofi di Termoli; grani Senatore Cappelli, Saragolla; mais. C’era

anche, insieme con un gruppo di animali domestici, la capra di Montefalcone del Sannio e, più lontano, saltavano

sulla battigia, triglie, cicale, scorfani, seppioline, calamaretti, cozze, vongole, pronti per un brodetto (ù bredétte) e

piccole ostriche, delizie per il mio palato.

Come un popolo esultante pronto a fare squadra, i sopracitati, tutti ad applaudire l’approvazione del piano, ad acclamare

i sostenitori e, insieme, a promettere il proprio impegno di testimoni per una visibilità dei luoghi e del territorio basso

molisano.  Dei trenta e più luoghi c’erano i rappresentanti eletti.

Davanti Larino, pronta a ricordare di essere stata la culla delle Città dell’olio e pronta a vantarsi di essere, con le tre varietà

che riportano tutte il suo nome, la città della biodiversità olivicola. Diceva di inserire nel suo programma una

Università dell’Olivo e dell’Olio del Mediterraneo” e un “Parco della biodiversità olivicola d’Italia”, dedicato alle 692 varietà

 di olive autoctone, il doppio del resto del mondo. Parlava, anche, di un riconoscimento Dop del suo olio “Gentile”,

da affiancare alla Dop “Molise” e di organizzare un “Museo dell’Olivo e dell’Olio” oltre a realizzare, in onore della festa

patronale e dei 120 carri tirati da buoi, la “Stalla della biodiversità bovina”, con annesse stalle per gli animali in via

di estinzione. Termoli, subito dopo, si candidava a culla e “Capitale italiana della cucina marinara”, e diceva di adoperarsi

per il riconoscimento Dop o Igp del suo “Brodetto” e del “Carciofo” che portava il suo nome. Portocannone indicava

il suo oliveto pieno di “Patriarchi”, bravi a raccontare la storia dell’olivicoltura molisana.

Montenero di Bisaccia innalzava, con maialini chiassosi, la sua “VentricinaDop,  mentre San Martino in Pensilis

tagliava a pezzi (bocconi di bontà) la sua “PampanellaIgp, rossa di peperoncino.

Ed io, felice di vedere che prendeva il via un Basso Molise laboratorio, non stavo più nei miei panni, e, mentre pensavo

alla sua trasformazione, esempio per l’intero territorio molisano, Guardialfiera mi ricordava la “miscisca”.

E, così, proprio nel momento in cui stavo per gustare un pezzo ancora caldo di questa carne di pecora, mi sono

svegliato.

Non nascondo la mia delusione al risveglio e, poco dopo, la mia rabbia quando mi sono ricordato che la Regione Molise

si deve ancora dare un Piano di sviluppo. Per la verità ha pensato a quello del turismo, dimenticandosi, però, dell’agricoltura

e dei testimoni, quelli sopra citati e tanti altri ancora (un pecorin o, una salsiccia, i cavatelli) non meno capaci di essere

immagine del proprio luogo e di raccontarlo.

Tutti espressioni di saperi, e, tutti in grado di “prendere il turista per la gola” e, non solo, di  portarlo a raccontare ad altri

la bella esperienza vissuta nella terra dell’ospitalità e della convivialità, dove vale andare e tornare.




 pasqualedilena@gmail.com

 

 

Commenti

  1. Mi auguro tanto che questo incontro di oggi abbia mitigata la tua delusione dall'allegorico risveglio. Sicuramente l'assessore ha proclamato grandi speranze alla pari della strategia per risparmiarci il disturbo dei cinghiali.
    Mi fa piacere pensare che comunque vada ci sia ancora tempo per utilizzare e tramandare le esperienze, autoctone, degli anziani di questa nostra terrà; altrimenti fra pochissimi anni sarà difficile trovare disponibile chi saprà riconoscere le varietà ed i metodi tradizionali che potrebbero farci continuare a sognare!
    Carmine Lucarelli

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Nel 2017 il mondo ha perso un’area di foreste grande quanto l’Italia. L’indagine di Global forest watch

Un pericoloso salto all'indietro dell'agricoltura

La tavola di San Giuseppe