LA NOSTRA SPERANZA NEL FUTURO

di Nicola Picchione
Spero che il mio pessimismo sia esagerato per il futuro del nostro Paese e della Terra. I gridi di allarme entrano nelle orecchie di pochi: qualcuno ha affermato che l’uomo deve toccare con mano, direttamente e pagandone le conseguenze, i frutti del malaffare umano. Come i novax che debbono finire in Terapia Intensiva per ricredersi. Nessuno conosce il futuro (nemmeno Gesù a sentire lui che affermò- in Giovanni-: questo lo sa solo il Padre) ma abbiamo creato i presupposti per guasti tragici e cocciutamente continuiamo sulla linea tanto comoda per noi che delle future generazioni importa poco. Siamo stati fortunati, noi della nostra generazione, come mai nella storia. Nel corso della vita abbiamo assistito a cambiamenti e miglioramenti come l’uomo non aveva conosciuto per millenni. Chi ci ha preceduto ha lottato per la libertà e per guadagnare diritti civili. Chi ora sbraita e ha nostalgia per un regime forte non si rende conto del prezzo che pagherebbe lui stesso per un tale regime che gli tapperebbe non solo la bocca. Chi ci ha preceduto ha lottato anche per vivere, con lavoro duro e malpagato costruendo un benessere del quale non ci rendiamo conto: come fosse un regalo del cielo. Siamo stati doppiamente privilegiati: possiamo renderci conto di questo benessere che le successive generazioni considerano “normale”. Noi abbiamo conosciuto il passato e apprezziamo tutto come chi dopo aver attraversato il deserto trova l’acqua. I giovani hanno acqua, hanno cibo, hanno mezzi per muoversi comodamente e velocemente. Forse non si rendono nemmeno conto del miracolo che è quel piccolo prodigioso oggetto che è il telefonino che fa cose una volta impensabili. Noi non avevamo il telefono in casa e nemmeno l’acqua tantomeno il riscaldamento o l’auto; anche la bicicletta era un lusso. Ed era un lusso poter studiare. Avere a disposizione questo ed altro già alla nascita sembra un diritto ed è inutile dire loro che i diritti (e quanto ne consegue anche economicamente) non sono mai definitivi e vanno mantenuti e per essere mantenuti bisogna sentire anche il fiato della loro precarietà. Abbiamo conosciuto l’antico aratro e la falce, il sudore per il pane. Noi però avevamo un privilegio ancora più grande: la speranza nel futuro. Ognuno di noi confidava nel domani, persuaso che sarebbe stato migliore di oggi. Dava forza, dava anche una serenità e una voglia di fare che faceva crescere noi e la società. Siamo stati cattivi educatori. Abbiamo illuso i giovani: illuso che la scuola non serve, che tutto è a portata di mano, che il rigore è schiavitù. Abbiamo troppo spesso cresciuto polli di allevamento, togliendo alla scuola autorevolezza, aprendo la politica ad arrivisti impreparati e spesso immorali, favorendo il malaffare, miscelando la democrazia col qualunquismo. Il benessere ha guastato noi prima ancora dei nostri figli: non li abbiamo saputo educare. Noi abbiamo accentuato l’individualismo egoistico, con la nostra tecnologia ci siamo sentiti padroni del mondo, capaci di dominare i deboli e gli indifesi. Fatti furbo, lascia lavorare gli altri, lo studio non serve, la cultura non fa mangiare. Noi cattivi maestri. Sono considerazioni che non solo rischiano di essere tardive ma che non possono trovare ascolto nella maggioranza. Non perché non capisca ma perché non ha voglia di capire: carpe diem. Ho visto peggiorare la Sanità pubblica: la conquista del diritto alla salute, il diritto del povero di essere curato come il ricco è andato riducendosi. Il medico si è illuso della disponibilità di strumenti sofisticati e ha perso spesso il suo contatto con la gente, la sua umanità perdendo autorevolezza. So che non bisogna generalizzare: non tutti i giovani passano le notti in discoteca o vanno a un rave party. Basti vedere i tanti che emergono appena è data loro la possibilità: i laureati che vanno all’estero ed occupano posti importanti; i giovani che praticano con sacrifici sport poco lucrosi (per non dire dei partecipanti alle Paralimpiadi che rappresentano i tanti che reagiscono con vigore commovente alle avversità). E i lavoratori che troppo spesso sono costretti a rievocare l’antico urlo: pane e lavoro. Col rischio di ritorno alla schiavitù. Non solo degli africani perché schiavitù richiama schiavitù in una concorrenza di necessità che ci riporta indietro. Corriamo il rischio di tornare indietro con un nuovo proletariato e sottoproletariato, con la Terra inaridita e surriscaldata. Eccesso di pessimismo? Non lo so, lo spero. Non vorrei fare la fine di Maria Antonietta che rideva dei poveri: non dovremmo sperare troppo nella generosità della Terra e continuare a trafiggerla. Voglio chiudere dicendo che passo il tempo libero nell’orto che quest’anno mi ha dato poche soddisfazioni malgrado le cure. E’ difficile e duro curare l’orto. Ma è bello. Come curare la vita. Come curare le persone. Come parlare, scambiarsi le idee che non necessariamente debbono combaciare. La diversità è ricchezza.

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