Oggi, il Giorno della Memoria
Per non dimenticare mai il diritto alla vita e alla dignità, per spezzare per sempre questo e ogni altro filo spinato
L’Odio e il razzismo sono tra noi non appartengono al passato
di Renzo Balmelli
MEDITATE. In questa fase della storia che stiamo attraversando, così difficile, la cosa peggiore che possa capitare nel Giorno della memoria è di perdere il senso della memoria. Di scordare che l’odio e l’antisemitismo non appartengono al passato, ma sono sempre tra noi e vanno combattuti senza abbassare la guardia. L’orribile massacro della Shoah, scritto col sangue di milioni di innocenti, organizzato con micidiale meticolosità fino alla “Soluzione finale” (Endlösung) di un popolo, e applaudito nella livida notte dei cristalli, non può sparire quasi fosse un banale danno collaterale di un sistema bacato fino al midollo. Quei capitoli infami di una dittatura infame debbono rimanere impressi nelle coscienze come un monito indelebile per le generazioni a venire. Testimoniare sempre, per non dimenticare mai. Ecco racchiuso nelle parole di Primo Levi il valore e l’importanza della memoria, “affinché ciò che è stato non si ripeta”. E perché “il fatto che sia accaduto non azzera, anzi moltiplica la probabilità che accada di nuovo”.
Meditate, ammoniva lo scrittore. Meditate!
Quando Hitler deportava i lavoratori
Dopo l'8 settembre oltre centomila italiani vennero prelevati e trasferiti in Germania come manodopera, mentre i grandi scioperi operai del marzo 1943 e 1944 venivano repressi
di Emiliano Sbaraglia
La Giornata della Memoria è l’occasione per rievocare la più grande tragedia umana della storia del Novecento, attorno alla quale si raccolgono iniziative, documenti e testimonianze con l’intento di tenere vivo il ricordo di quanto accaduto. Ed è scavando negli archivi disseminati in vari luoghi d’Italia che è ancora possibile ritrovare storie poco conosciute, rimosse nel tempo e lasciate sedimentare in un angolo remoto di un patrimonio nazionale che ci appartiene.
Tra queste c’è quella di molti italiani e italiane, più di centomila, che in seguito all’armistizio con le forze anglo-americane dell’8 settembre 1943, per i mesi che seguirono sino alla fine della seconda guerra mondiale vennero spediti oltre confine come lavoratori civili coatti. Da quel giorno l’Italia divenne uno dei pochi Paesi da cui il Terzo Reich potesse ancora riuscire a ricavare una consistente manodopera a costo zero, utilizzata prevalentemente, ma non solo, per continuare ad alimentare la produzione di materiale bellico.
In realtà già negli anni precedenti, quando l’alleanza annunciata a Roma nell’ottobre del 1938 dal ministro degli esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop si trasformò pochi mesi dopo nello StahlPakt, il Patto d’Acciaio siglato ufficialmente a Berlino da Galeazzo Ciano, centinaia di migliaia di lavoratori italiani (in particolare edili e braccianti) furono trasferiti in Germania come forza-lavoro. Ma dopo la data dell’8 settembre il reclutamento di donne e uomini sul territorio nazionale divenne un dramma ulteriore, che andava ad aggiungersi alla tragica situazione determinata dal perdurare della guerra.
Seppure ancora poco rilevato dagli studiosi, in particolare venne coinvolto il confine orientale e nord orientale della Penisola: fu la regione del Triveneto (comprendente Veneto, Trentino-Sud Tirolo e Friuli Venezia Giulia) a subire più di altre questo specifico fenomeno di deportazione, in virtù della posizione geografica rispetto alla gestione politica e militare del Reich durante il conflitto. Nei venti mesi di occupazione tedesca il reclutamento divenne forzato, e un supporto decisivo in questa operazione arrivò dagli apparati del fascismo di Salò.
Si moltiplicarono così gli interventi nei confronti dei lavoratori delle industrie e delle fabbriche italiane, nei settori agricoli e in tutti quelli che potessero offrire braccia utili alla causa tedesca, attraverso arresti e retate nelle città, rastrellamenti nelle zone di campagna, prelievi e sequestri nei luoghi di detenzione, in quest’ultimo caso soprattutto per rinforzare l’industria chimica germanica. Rapidamente il reclutamento di uomini e donne si estese in gran parte dell’Italia: dai “soldati del lavoro” nel torinese arrivò a Genova e intorno alla sua provincia, così come venne attivata la zona di operazione “Litorale Adriatico” per arruolamento coatto di manodopera, mentre nella regione dell’Emilia ebbe un ruolo centrale per le pratiche di precettazione il Commissariato Marchiandi, documentato con varietà di fonti dal fondo Aned dell’Istituto Cidra, funzione simile a quella assunta dall’Ispettorato del lavoro di Roma e nel Lazio.
In questo scenario si inserisce la repressione dei due grandi scioperi operai del marzo 1943 e marzo 1944, sostenuti dalle formazioni partigiane e diffusi nell’intero triangolo industriale, che proprio a causa della grande adesione scatenarono la violenta reazione di nazisti e repubblichini, con la cattura e la deportazione nei lager di molti dirigenti antifascisti e migliaia di lavoratori presenti nelle numerose manifestazioni che coinvolsero soprattutto le grandi fabbriche di Torino e Milano. Un’opposizione coraggiosa e di massa, emblematicamente rappresentata dall’uccisione da parte dei tedeschi dell’organizzatrice degli scioperi e partigiana Gina Galeotti Bianchi, nel giorno della Liberazione.
Gli archivi consultati dagli storici nel corso degli anni hanno dunque fatto emergere un’altra parte di verità, e l’ennesimo orrore. Dal 1938 al 1945, più di un milione di italiani, uomini e donne, finirono a lavorare nella Germania nazionalsocialista, e furono diversissimi i contesti e le situazioni in cui essi si trovarono, dall’iniziale parificazione parziale agli autoctoni, soprattutto nei primi quattro anni, allo status di Internati Militari Italiani, senza le protezioni garantite dal diritto internazionale per soldati e ufficiali caduti nelle mani della Wehrmacht dopo l’armistizio. Numeri (persone) che contengono tra gli altri gli 8.564 deportati per motivi razziali (quasi tutti ebrei), condotti a morire ad Auschwitz e di cui solo una minima parte venne costretta al lavoro, e gli altri 23.826 deportati politici italiani destinati non subito nelle camere a gas, di cui più della metà condannata a morire di sfinimento attraverso le durissime condizioni di lavoro.
Una tragedia nella tragedia, l’ennesima, da non dimenticare.
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