70° anniversario della morte di Francesco Jovine l’Omèro della nostra terra magica e concreta



70° anniversario della morte di
Francesco Jovine
l’Omèro della nostra terra magica e concreta

Guardialfiera, 9 ottobre 1902 – Roma, 30 aprile 1950

Contributi di Vincenzo Di Sabato, Libero Bigiaretti, Antonio Mucciaccio, Antonio Crecchia, Sebastiano Martelli e Jean -Pierre Pisetta

                A noi – suoi colleghi - la morte di Francesco Jovine avvenuta domenica 30 aprile alle ore 7,45, ci è parsa ingiuriosa, inesplicabile. Proprio il cuore generoso e disordinato dell’amico, si è schiantato!
         Uno spirito che ha donato e richiesto amore a tutti: alla sua Dina, ai fratelli, al suo paese, alla letteratura.
         Abbiamo approfittato tutti del suo gran cuore che, per quarantasette anni, ha scandito il ritmo ampio e caloroso di un’esistenza piena di giuste passioni, di bontà e di lavoro spumeggiante.
         Lo scrittore di Guardialfiera ha conosciuto e rispettato i poverissimi contadini del paese, i cafoni senza pane, gli artigiani sventurati; l’esistenza mediocre del piccolo borghese e di un prete pittoresco.
          Ha conosciuto il duro lavoro intellettuale insidiato giorno per giorno dalla brutale avidità di coloro che reggono il “mercato”.
         Tutte le storture della società maledetta, Jovine le ha sperimentate, denunciate e patite in sé e negli altri.

            Libero Bigiaretti
Roma, 3 maggio 1950

Francesco  Jovine  70  anni  dopo

Il 30 aprile 1950 moriva a Roma Francesco Jovine.  A distanza di 70 anni più si allontana il tempo della sua scomparsa e più vivo diventa il suo ricordo.

          Egli nacque a Guardialfiera, piccolo paese adagiato sul crinale di una collina da dove si ammirano la valle del Biferno e un breve orizzonte con le rovine di chiese, conventi e sobborghi situati, nei secoli lontani, in vaghi punti delle colline circostanti.

           Jovine trascorse la sua infanzia tra gente sottile e arguta, tutta piena della saggezza dei proverbi e condannata al suo stato di miseria e di antico abbandono.

           Dal suo paese si allontanò a motivo dei suoi studi, fatti tra grandi difficoltà economiche. Tornava a Guardialfiera durante le vacanze e, insieme ai fratelli, aiutava il padre agrimensore a compassare le campagne, oppure si rifugiava nella casa materna, il palazzo Loreto, a leggere i volumi dell’antica libreria. 

           Diplomatosi  a sedici anni col massimo dei voti, fece l’istitutore a Vasto e a Maddaloni, vinse   il concorso magistrale classificandosi primo, insegnò per tre anni nelle scuole elementari di Guardialfiera;   vinse il concorso di ammissione   nella facoltà di Magistero e si trasferì a Roma dove  ebbe come professori Giuseppe Lombardo Radice e Guido De Ruggiero; si laureò e vinse il concorso di direttore didattico, insieme alla moglie Dina Bertoni, che aveva sposato nel 1928.

             Nel 1934 esce il suo primo romanzo,  Un uomo provvisorio.

           Il romanzo fu censurato e duramente giudicato dalla critica fascista perché, in un regime che predicava sicurezze e certezze e diffondeva illusioni di grandezza, metteva in luce la provvisorietà e il vuoto interiore di un uomo che si sentiva solo ed estraneo al clamore circostante.

           Dopo questa prima esperienza, Jovine riprese e portò avanti lo studio sui problemi dell’Italia meridionale e del Molise.

             Lesse  con avidità gli scritti di Giuseppe Maria Galanti e di Francesco Longano, allievi di Antonio Genovesi, che sul finire del  secolo dei lumi avevano descritto con crudo realismo le condizioni misere delle genti e delle terre del “Contado di Molise”.

             Da quando nel 1806 il re Giuseppe Bonaparte aveva abolito il feudalesimo e, con decreto, aveva  elevato il Molise da “contado” a “Provincia”, il Molise, come tutto il Mezzogiorno, aveva visto l’assalto alle terre dei demani ex-feudali da parte di una borghesia avida, scaltra e taccagna, che in modi fraudolenti e usurari si era progressivamente appropriata delle terre assegnate ai contadini e aveva ricostituito nuovi latifondi.  I contadini ricaddero  nelle loro antiche miserie  e il Molise mostrò il volto di una terra avara e segreta che secoli di storia non avevano mutato.

            Per questo Jovine, nell’estate del 1941, come inviato del Giornale d’Italia, avvicinandosi in treno alla sua terra, scrisse parole di altissima poesia:

                                          Quando  incontreremo  le  prime  ulivelle

                                           magre, solitarie, in  bilico  sui  dirupi,

                                           con  i  rami  stenti, tormentati  dalla  bufera,

                                           allora  saremo  in  contado  di  Molise.”
         Terra di “contado”, così Jovine rivede e ritrova il suo Molise.  A questo filo conduttore sono legati il romanzo Signora Ava (1942), i racconti Il pastore sepolto e L’impero in provincia (1945) e il romanzo Le terre del Sacramento (1950).

           Signora Ava, definito da Carlo Cassola “il più bel romanzo del ‘900”, è una storia  corale  che si svolge negli ultimi anni del regno borbonico  e nei primi anni dell’unità d’Italia.  Jovine descrive il piccolo mondo dei contadini, dei galantuomini e dei preti di Guardialfiera. E’ un mondo  visto attraverso i ricordi della fanciullezza, la voce e i racconti del padre, in una nostalgia favolosa, che mostra il volto remoto di una terra e di una gente di antico nome, ma avvolta nell’abbandono e nell’oblio.

             Jovine sa cogliere il segreto respiro di questo mondo. Guardialfiera è un paese con un ammasso di casupole di contadini grigie e affumicate, tra le quali spiccano i palazzotti dei galantuomini, come la vecchia e grande casa dei De Risio: Don Giovannino, ex colonnello di Gioacchino Murat nella grande armata di Napoleone, maestro dei figli dei galantuomini dei paesi del circondario e poeta d’occasione; Don Beniamino, arcidiacono vicario, “un prete enorme, detto il signor zio, alto, grasso, solenne, con occhi porcini”; Don Eutichio, scaltro, avaro, taccagno e sfruttatore dei sudori e delle fatiche dei contadini; Don Carlo, grasso, indolente e tardo d’ingegno, diventato medico a stento e tornato da Napoli a Guardialfiera, “come asino in mezzo agli zingari”. Ci sono poi garzoni e serve e c’è don Matteo Tridone, prete povero,  estroso e magro,  in mezzo ad una schiera di preti grassi e  ricchi,  che si litigano le rendite ecclesiastiche della soppressa diocesi di Guardialfiera.  Vi è il giovane  don Stefano Leone, figlio di galantuomini possidenti di Guglionesi e studente di don Giovannino, che si infiamma di un amore chiuso e malinconico per donna Antonietta De Risio, ragazza di delicata bellezza. E vi è il giovane garzone Pietro Veleno, con la sua aria pensosa di contadino povero e rassegnato al suo destino.

               Attorno a questi personaggi si muove tutta la società di Guardialfiera: galantuomini oziosi e intriganti, preti che si fanno dispetti e, soprattutto, la folla solitaria dei contadini senza nome e senza storia, che menano la loro vita di fatiche e di stenti.

                Le voci  della caduta del regno borbonico e delle imprese di Gariobaldo  arrivano e agitano il piccolo mondo di Guardialfiera. I contadini reclamano e occupano le terre, ma i loro moti vengono  repressi e soffocati nel sangue dai galantuomini e dalla guardia nazionale. Gli scampati si danno alla macchia e al brigantaggio.  Poi, quando tutto passa,  ogni cosa ritorna al suo posto, come se niente fosse accaduto.

                          Mi auguro che il romanzo  -  scriveva Francesco Jovine il 18 maggio 1942 in una lettera a Nicola Perrazzelli, con parole che sono poesia   -   possa contribuire a far conoscere più precisamente il povero ma irresistibile incanto della nostra terra che, tra tutte quelle d’Italia, è la sola forse che conservi integri gli aspetti di una civiltà antichissima, altrove confusi e sommersi dalla civilisation a carattere non indigeno e profondamente repugnante per il mio spirito.

            Ho voluto rendere il farsesco e il tragico, il rozzo e il raffinato senso della vita che hanno i nostri contadini; ho voluto farli cantare all’unisono con la terra generosa e matrigna e col cielo troppo lontano e irraggiungibile.”


 Anche il romanzo Le terre del Sacramento  presenta l’atmosfera addormentata di una cittadina di provincia: Calena (Casacalenda, la Kalene di Polibio), con i suoi galantuomini pigri e indolenti, decine di avvocati che trascorrono il tempo in interminabili liti, giovani poveri, ma non incolti, che si dibattono nelle strettoie di una realtà miserabile.

              E dall’alto di Calena si vedono,  lontane,  a occidente, le cime delle Mainarde e della Maiella e,  in basso, nella valle dove scorre il Calandro (Biferno), c’è  laggiù Morutri” (Guardialfiera) con Le terre del Sacramento,  un esteso latifondo appartenente all’antica Congrega del Sacramento.

               Le terre sono divenute proprietà della famiglia Cannavale a seguito dell’incameramento dei beni ecclesiastici da parte del regno d’Italia nel 1867.

               Aspre, corrose dalle frane e  cosparse di pietraie, “ci sono ipoteche e fulmini per le terre del Sacramento”, che per i contadini  sono terre maledette. “Il Pontefice nel  1867 ha scomunicato tutti gli acquirenti dei beni della Chiesa”.

              ”Il cavallo indiavolato buttò a terra il padre della capra del diavolo e lo trascinò per duecento metri sui sassi. C’è il sangue del padre della capra del diavolo sulle terre”  -  diceva Gaudenzio il sacrestano.

                 La capra del diavolo” era il soprannome di Enrico Cannavale,  avvocato non privo di ingegno e di qualche ambizione politica, ma squattrinato, carico di debiti e tutto dedito ai vizi, al gioco, alle donne. Nella pigrizia e nel disordine, non si cura delle sue terre, che restano abbandonate  e ridotte a legnaie e a pascolo abusivo.  Ciò fino a quando Enrico Cannavale sposa la sua cugina Laura De Martiis, la quale  mette mano con decisione alla ricomposizione e riorganizzazione del patrimonio. In questo immane lavoro chiede l’aiuto e la collaborazione del giovane Luca Marano, per convincere i cafoni di Morutri a lavorare per il risanamento delle terre, con la promessa di contratti di “enfiteusi perpetua”, fino a diventarne proprietari.

                 Luca Marano, figlio di poveri contadini braccianti e mietitori, avviato alla carriera ecclesiastica che presto ha abbandonato per mancanza di vocazione, si mette all’opera, parla ai contadini e ne raccoglie la fiducia . Essi si spargono per le terre, le dissodano a colpi di zappa, estirpano la gramigna e tolgono le pietre.

                Ma sulle terre mette i suoi occhi rapaci il barone Santasilia, che se ne  assicura la proprietà di gran parte, le  migliori,  con i soldi prestati a Laura e con la complicità del notaio Iannaccone, costituendo una apposita società, la  Sabs (Società Anonima Bonifica Sacramento), “il quaranta per cento delle azioni a Laura Cannavale e marito, il quarantacinque per cento al Credito Meridionale (del barone Santasilia), il quindici per cento al notaio Iannaccone”.

          Quando Luca si rende conto dell’inganno, incita i contadini ad occupare e seminare le terre del Sacramento, per farle proprie e ripagarsi delle fatiche e dei  sudori  spesi per dissodarle e metterle a coltura.

           Siamo nel 1922 al tempo della marcia su Roma. A Calena i galantuomini,  i borghesi e gli studenti del liceo comunale  sono  diventati tutti fascisti; don Benedetto Ciampitti ha dato gratuitamente i locali per la sede del fascio; nella piazza la domenica si fanno adunate con marce, discorsi e canti.

            E’ una rivoluzione da ricchi  -  disse Gesualdo  a Luca  -  Anche qui, a Calena, gli ideali sono vestiti troppo bene e vanno d’accordo con monsignor vescovo. L’altra domenica, quando tu eri a Morutri, Pistalli ha portato i suoi mocciosi inquadrati, alla messa. Hanno fatto il present’arm al Santissimo, col manganello alzato.”

           Alla notizia che i cafoni di Morutri hanno occupato le terre, scatta l’allarme.  Bisogna ristabilire l’ordine ! Carabinieri e squadre di camicie nere con i camion partono da Calena,  scendono a Morutri e si dirigono sulle terre del  Sacramento. I contadini si difendono con le pietre e con le zappe, ma vengono arrestati e presi a fucilate.  In uno di questi scontri viene colpito a morte anche Luca Marano  e bagna col suo sangue le terre maledette.

             Il romanzo si chiude con il lamento funebre che le donne di Morutri sciolgono sul corpo di Luca.          

           “Quando la notte divenne buia, i vecchi accesero i fuochi alle spalle dei morti. A un tratto Immacolata Marano urlò:

 -  Luca, oh Luca!  -  e si mise le mani sul capo dondolando il busto.

 -  Luca, spada brillante,  -  gridò una voce giovanile.

 -  Spada brillante,  -  ripeterono in coro le altre.

 -  Stai sulla terra sanguinante.

Via via le donne….. piansero e cantarono grande parte della notte, rimandandosi le voci, parlando tra loro con ritmo lungo, promettendo tutto il loro dolore ai morti. La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il circolo di luce che faceva il fuoco, ancora vivo.”

Roma, Focette di Pietrasanta, 1947 – 1950

                                                                                                        Antonio Mucciaccio 


POESIA

A Francesco Jovine

Al tempo della tua dipartita

dagli affetti coniugali

e dalla luce dei mattini

che ti riportava al borgo natio

con i sensi e il pensiero

cantore della terra solatia,

bagnata dal sinuoso Biferno,

nume alla fiumana del tuo dire,

io ero ancora un bambino,

seduto in un banco di scuola

a seguire lezioni di maestri

che, come te, erano figli

d’un arcaico e depresso Molise.

Ignoti m’erano il tuo nome,

le opere dal tuo genio partorite,

le ansie, le fatiche e i tormenti

di anime all’ombra cresciute

di palazzi e Cattedrale antica.

Non tardai molto, però, a scoprire

il saldo ancoraggio d’amore

che ti univa al paese mio,

ove ebbe vita e patimenti,

dileggi e incomprensioni

la sacra persona di don Matteo Tridone,

che tanta risonanza ebbe, e fama,

dacché a protagonista lo innalzasti

del celebre romanzo “Signora Ava”.

Insigne aedo delle “Terre del Sacramento”,

ove respirasti aura fraterna

tra diseredati e umile gente,

di giustizia affamati e di pane,

conoscesti malizie e ipocrisie

del branco dei nullafacenti,

ma desti con la mente nelle arti

e cure del proprio nutrimento

di vizi, albagie e turpi intendimenti.

Poi che il fato la vita ti rese corta,

impietoso il vento del tempo

volse in polvere il corpo mortale,

in un aprile di sole e di rondini

di fresco tornate al secco nido,

ma lo spirito tuo alacre e vivace

ancora erra tra cave e pietre lavorate

da zelanti artisti scalpellini, nativi

dell’amata terra di Guardialfiera,

e l’acume della tua fantasia

spazia vivido e immortale ben oltre

le strette e aspre plaghe molisane,

pregne d’intelletti e virtù umane.

Antonio Crecchia


Jovine a settant’ anni dalla scomparsa: per un utile anniversario.

Questo anniversario è l’occasione per un bilancio della presenza di Jovine  nel panorama attuale della letteratura italiana: edizione e circolazione delle sue opere, studi critici, la sua presenza/assenza nel cosiddetto canone letterario nazionale, dal quale qualche giovane critico lo considera ormai «ufficialmente fuori». Sicuramente su un certo ridimensionamento critico ha pesato il suo essere stato ingabbiato nel Neorealismo del secondo dopoguerra – segnato dal forte imprinting politico-ideologico e dal riuso di modelli narrativi ottocenteschi – messo fortemente in discussione dai movimenti letterari e dalla nuova critica degli anni Sessanta e Settanta: il suo romanzo più noto, Le terre del Sacramento (1950), indicato dalla critica egemone negli anni Cinquanta  come espressione significativa, anzi punta avanzata del  realismo nella narrativa, ha comportato un importante riconoscimento e insieme un avallo per molta critica  a considerare Jovine uno scrittore datato. Anche se non va taciuto che le tre  monografie più note sullo scrittore, Grillandi  (1971), Ragni (1972), Carducci (1977), appaiono proprio negli anni Settanta. 

Tutto ciò non ha impedito che i due romanzi maggiori, Signora Ava e Le terre del Sacramento, continuassero a essere disponibili per i lettori, riproposti da Einaudi anche nei tascabili, cui nel 2010 e nel 2012 si sono aggiunte le nuove ristampe dell’editore Donzelli con introduzioni di Francesco D’Episcopo. Un contributo importante a tenere desta l’attenzione allo scrittore  negli ultimi cinquant’anni sicuramente è venuto dall’editoria molisana, che ha puntato sugli scritti considerati minori, romanzi giovanili, racconti, scritti giornalistici:  Un uomo provvisorio (1934), riproposto da Marinelli nel 1982 insieme ad un corposo studio di Francesco D’Episcopo; Ragazza sola, pubblicato da Enzo Nocera per la cura di Francesco D’Episcopo; i Racconti dimenticati e dispersi, a cura di Caterina Carmosino per l’editore Cosmo Iannone.  Vanno poi ricordate le iniziative editoriali riguardanti gli scritti giornalistici, a cominciare da quella fondamentale voluta  e curata da Nicola Perrazzelli di Viaggio nel Molise, nelle due dizioni della Casa molisana del libro (1967) e di Marinelli (1976); mentre una raccolta quasi completa degli Scritti critici è stata curata da Patrizia Guida per l’editore Milella di Lecce (2004).

Dunque, un quadro non sconfortante, cui però è mancato un apporto decisivo per alimentare l’attenzione degli studiosi, la disponibilità di un archivio dello scrittore che consentisse di utilizzare testi inediti, carteggi, diari, appunti , stesure di romanzi e racconti. Tranne D’Episcopo che nel 1983 ha curato l’edizione delle Commedie inedite per l’editore Longo di Ravenna e che in altri suoi studi ha utilizzato frammenti di appunti, nessuno studioso ha mai avuto accesso a materiali archivistici dello scrittore, neppure Eugenio Ragni, autore di una fondamentale monografia(1972) che, come mi confermava qualche anno fa, non era riuscito a visionare neppure un foglio di appunti dello scrittore  nonostante si fosse rivolto alla vedova Dina Bertoni. Quanto sia importante  la disponibilità di un archivio per sollecitare l’attenzione  degli studiosi lo dimostra lo stato attuale  degli studi  su scrittori come Sciascia, Gadda, Morante, Moravia e decine di altri. Poiché quasi certamente l’archivio Jovine non esiste – forse solo carte disperse tra vari eredi – occorre allora concentrarsi su altro e muovere in altra direzione: è quello che ho cercato di fare con le due edizioni di Viaggio nel Molise e Viaggi nel Molise, proposte  dall’editore Cosmo Iannone  nel 2017 e nel 2018; la  seconda edizione, tra l’altro, ha in allegato il  Dvd di un documentario di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti, una suggestiva rivisitazione delle terre molisane  di oggi sulla scorta degli scritti joviniani. Con queste due edizioni si è inteso andare oltre la meritoria operazione fatta a suo tempo da Perrazzelli, che raccoglieva solo gli articoli di viaggio del 1941, proponendo tutti gli scritti giornalistici concernenti  viaggi reali e immaginari di Jovine nella sua regione. Nel saggio che chiude le due nuove proposta editoriali ho cercato non solo di analizzare questi scritti ma anche di segnalare possibili linee guida per continuare ad approfondire lo spessore della narrativa di Jovine. Gli scritti che vanno   cronologicamente oltre quelli del 1941 consentono intanto  di non fermarsi a quella ricorrente,  suggestiva ma parziale immagine dell’«incanto» memoriale  della propria terra   per evidenziarne invece una molto più complessa: una spia e le tracce di un progetto di rappresentazione narrativa degli snodi decisivi della storia del Mezzogiorno da   fine Settecento al passaggio dell’Unità,  la grande emigrazione transoceanica, l’avvento del Fascismo, la destrutturazione politico-sociale  del secondo dopoguerra. Un progetto cui Jovine lavora dagli anni Trenta fondandolo su riletture approfondite di autori centrali della cultura meridionale, da Vico agli illuministi, Genovesi, Galanti, Longano, da Cuoco a De Sanctis, Villari, Fortunato, Salvemini, Dorso, Gramsci; cui aggiunge il recupero di una certa storiografia minore e la conoscenza  empatica, antropologica e umana del mondo contadino. Un progetto che vede una prima realizzazione con Signora Ava, un romanzo che costituisce ancora oggi una originale  ed unica rappresentazione del Risorgimento e dell’Unità visti con lo sguardo e la percezione del mondo contadino  che si incrociano con quelli della piccola borghesia agraria. Il capitolo sull’ emigrazione transoceanica tra Otto e Novecento ha un primo risultato con Il pastore sepolto (1942), un eccezionale racconto lungo che avrebbe dovuto avere, nelle intenzioni dell’autore, ben altri sviluppi. L’impero in provincia (1945) concentra significativi segmenti di vissuto degli anni del Fascismo, mentre con Le terre del Sacramento, ambientato negli anni  del primo dopoguerra, lo scrittore vuole raccontare in sovrimpressione le lotte per la terra  e la contrastata immagine del tempo nuovo nel secondo dopoguerra.

Nessuno scrittore italiano del Novecento ha un rapporto con la storia così peculiare come Jovine, la cui narrativa è fortemente interconnessa con i processi storici del Mezzogiorno, su cui   egli si è sintonizzato con l’aiuto dei più importanti autori e testi del pensiero meridionale. E’ su questo versante che bisogna lavorare    con la riproposta dei suoi scritti, romanzi, racconti, scritti giornalistici   – e con studi nuovi di approfondimento, se vogliamo far riacquistare centralità a Francesco Jovine  nel panorama della letteratura italiana dell’ultimo secolo. Un’operazione in cui forse  potremmo essere favoriti  in un tempo difficile come questo che stiamo vivendo, che richiederà una necessaria curvatura anche del discorso culturale alla realtà sociale ed umana e al recupero di una memoria storica significante. Sarà questo anche il modo per dare visibilità al Molise, visto che la regione è lo sfondo totale storico-geografico., sociale e umano della scrittura di Jovine.
                                                                                                                                                         Sebastiano Martelli




Io, Jovine e Guardialfiera
“Pensieri e parole” di Jean-Pierre Pisetta
Scrittore, docente di Italiano per traduttori e interpreti alla Libera Università di Buxelles



            Quando, alcuni anni fa, mi chiesero  - alla Scuola per traduttori dove insegno  - di dar vita al Corso di Cultura Italiana, utilizzai il Vademecum sulle 20 regioni italiane, sotto il profilo della loro storia, cucina, geografia, del dialetto, delle bellezze naturali. E, per ogni regione, una rubrica elencava i “personaggi famosi”. Per il Molise, due soli erano stati scelti.

            Il primo, Celestino V, lo conoscevo per via dell’accenno dantesco (e, essendomi poi recato ad Isernia, mi accorsi di quanto odiassero Dante nella patria – seppur fugace – di quel Santo Padre).

            Il secondo – chiedo scusa a tutti i molisani - non l’avevo mai sentito nominare: Francesco Jovine. Era citato per “i suoi romanzi Signora Ava e Le terre del Sacramento che presentano uno spietato affresco delle condizioni di viita nella campagna molisana abbandonata dallo Stato”.

            Incuriosito, mi procurai quei due libri che mi hanno a dir poco affascinato, in particolare il meravigliso personaggio del prete in Signora Ava”, don Matteo, accanto al quale il celeberrimo Don Abbondio manzoniano fa proprio pietà col sua pavido “quieto vivere”.

            Poi, essendo amante, nonché modesto scrittore di racconti, ho letto quelli di Jovine e mi ha colpito soprattutto il suo modo di finirli – o di non finirli - o di lasciarli aperti alla fantasia del lettore.

            Penso di aver acquistato e letto gran parte delle sue opere, dal primo romanzo Berlué (bellissimo libro per ragazzi del 1929 ma, a mio parere, libro problematico, per lo sguardo forse non abbastanza critico verso le camicie nere della storia) fin alle ultime Terre del sacramento.

            Quando scoprii il suo  Viaggio nel Molise, mi venne l’idea di tradurlo in francese e cercare di farlo pubblicare in Belgio – dove sono nato e vivo – o in Francia (impresa non ancora andata in porto).

            Nell’estate 2017, lasciando moglie e figli in ferie estive su in Piemonte, presi il treno per Termoli, e cominciai così a visitare i  posti tratteggiati da Jovine negli 11 articoli del  suo “Viaggio” attuato nel 1941

            Da Termoli, la mia prima tappa fu Guardialfiera, paese nativo di Jovine. Vi fui accolto dalla  affabile conduttrice dell’unico – se non sbaglio – bed and breakfast del posto, che ben parlava francese, essendo vissuta per lungo tempo in Belgio. Fu lei a presentarmi Vincenzo di Sabato ritenendolo il grande conoscitore di Jovine in paese, e tale s’è rivelato nella realtà. Egli mi condusse in un museo, reconditorio di eccezionali e lontane civiltà locale e memorie di Jovine a Guardialfiera e di tutti i suoi libri, molti anche tradotti in lingue diverse.

            Ma, al di là degli oggetti che ricordavano lo scrittore, fui lieto di scoprire i lineamenti  dell’ “uomo Jovine” con Vincenzo di Sabato. E, fra le tante altre particolarità, seppi che sua madre l’aveva avuto come maestro di scuola: il primo mestiere del futuro scrittore, dopo essersi laureato al Magistero di Roma. E mi offrì, infine, l’indirizzo della sua abitazione a Guardia. Non mi ci portò di persona perché, in quel momento era pieno meriggio e faceva un caldo tropicale. Mi ci recai più tardi nella giornata. E, nel fiabesco scenario di “Piedicastello”, cuore di questo paesello antico, trovai la sua abitazione nobile e modesta. E potei leggere sulla faccia, nell’atrio, una lapide molto bella che sintetizza in pieno il contributo alle lettere italiane sprigionato dalla passione per la sua terra: “Nel centenario e nel luogo della sua nascita, i Rotary Club di Agnone e Larino ricordano Francesco Jovine, che del Biferno, trasfigurato in sacramento, fece maestoso affluente della letteratura italiana”.

            Così finì il mio breve soggiorno a Guardialfiera. Di lì ho proseguito, con il Viaggio nel Molise di Jovine in mano, adeguandolo ad un semplice quaderno durante le soste del mio “Grand Tour” . Di un percorso in quell’antica terra della quale ho riportato in Belgio, pensieri deliziosi, nobilitati ancor più da parole pronunciate a Isernia  da una signora, che lavorando all’uncinetto, sorvegliava gratuitamente la Sala di un museo: “C’è lavoro da voi in Belgio”?  Mi chiese. “Beh, un po’ come dappertutto” risposi. “I tempi sono duri”. “Sì” fece lei, “ma qui mi sa che siamo messi ancora più male che da voi. Mah! – concluse – almeno noi abbiamo la gentilezza”.

            La gentilezza, infatti, è stata l’attrattiva da me notata, durante il mio “Viaggio nel Molise”. Questa sì che nei tempi duri è una ricchezza!

Jean-Pierre Pisetta

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