Il mondo nuovo degli oliveti superintensivi, che viene da lontano

Il mondo nuovo degli oliveti superintensivi, che viene da lontano

L'agricoltura inustrializzata, massima produttività al minor costo, è una concenzione del Dopoguerra. Oggi la crisi strutturale del sistema obbliga a un cambio di paradigma




Giorni fa ero a Colletorto, una delle prime città dell’olio che ha fondato, 1994 a Larino, l’omonima associazione nazionale e che, proprio con Larino, detiene un primato nel campo della biodiversità olivicola con tre varietà autoctone. La “Gentile”, la “Salegna o Saligna” e la “San Pardo” le tre di Larino ; la “Oliva nera”, la “Rumignana” e la “Cazzarella” di Colletorto.
Ero lì, chiamato dall’Amministrazione comunale, per discutere con altri amici di un tema di attualità, da non sottovalutare, qual è quello del confronto tra oliveto tradizionale e oliveto super intensivo.
Per non dare spazio a uno scontro tra curva nord e curva sud – cosa che ho potuto verificare in precedenti esperienze – sono partito da lontano, primi anni cinquanta, ed ho sviluppato il mio ragionamento facendo ricorso a esperienze vissute a fianco di un mondo, quello agricolo, come quella di vivere, non ancora ragazzo, in prima persona la mietitura e la trebbiatura del grano in quella landa assolata che era la contrada “Bosco” della mia Larino. Un bene comune distribuito in tanti piccoli lotti a cittadini che li volevano lavorare. Una risorsa per l’intera comunità. Per il grano, come per l’uva, l’oliva, le tre colture principali della mia terra, il ragionamento calava, e cala tuttora, sul discorso della quantità, la resa di una campagna di sacrifici e di lavoro.
Agli amici presenti raccontavo dei 12-13 q.li/ettaro di grano duro, varietà “Senatore Cappelli”, e della possibilità di avere, una volta pagate le spese necessarie per la produzione e la trasformazione, un quantitativo di grano a disposizione della casa o del mercato. Fra le spese non c’era quella dei concimi, dei trattamenti, ma solo dei semi selezionati dalla raccolta dell’anno prima, della preparazione del terreno e della semina, della mietitura e trebbiatura, e, per pagare queste spese, c’era la necessità d vendere il grano. Il rimanente veniva portato al mulino per avere la farina, essenziale per fare il pane, la pasta – in pratica mangiare – e per avere la crusca, essenziale per dare da mangiare al mulo ed al maiale, altra straordinaria risorsa della raccolta. Stava qui il guadagno. Un anno, poi, questo guadagno era diventato quasi esagerato con la resa di 18 q.li/ha. Un anno d’oro per il grano, davvero eccezionale, donato da madre natura.
Mi è toccato un solo anno - il primo di questa mia lontana indimenticabile esperienza - spostare i covoni ancora legati con un fascio di steli mietuti a mano. Poi, l’anno successivo, l’arrivo delle prime macchine mietitrici ad anticipare di qualche decennio la mietitrebbia e, con essa, la fine degli incontri sull’aia, che creavano sempre un’atmosfera di festa e di lavoro,.
Pochi anni dopo la riconsegna dei terreni al Comune e, con essa, la fine di un’esperienza che, a me bambino, appariva come una punizione. Dell’agricoltura sono tornato a interessarmi con la frequentazione prima dell’Istituto tecnico agrario, e, in seguito, della facoltà di Agraria, Università di Firenze. Erano le lezioni dei tanti insegnanti incontrati e la lettura dei libri a darmi notizie delle novità, delle piccole e grandi innovazioni riguardanti la genetica, le lavorazioni e le concimazioni, i trattamenti per affrontare e vincere gli attacchi dovuti ai funghi e agli insetti.
Un mondo nuovo che si staccava di colpo dal passato e sempre più da esso si allontanava. L’obiettivo era la quantità con l’abbondanza di acqua a disposizione, le concimazioni con i prodotti di sintesi e i nuovi semi, che prendevano il posto, parlando del grano, delle ormai obsolete varietà.
Della qualità espressa dal territorio si cominciava a parlare dopo l’approvazione de Dpr n° 930 del 1963 e la diffusione dell’acronimo Doc (Denominazione di origine controllata) riservato ai vini.
Stava partendo l’agricoltura moderna e l’esempio diventava sempre più quello di un’agricoltura industrializzata sulla spinta dei piani verdi e delle prime risorse finanziarie dell’Europa, che coinvolgeva sempre più le piccole e medie aziende. Tutto partiva con risultati ottimi, e, tutto sembrava dare risposte adeguate in fatto di reddito ai coltivatori, fino a quando, tempo due/tre anni, non si registravano i primi problemi causa l’andamento del mercato. Tanto prodotto sulla spinta della meccanica, chimica e agro farmaci, ma sempre meno reddito per le piccole e medie aziende. Abbandono del pascolo con la scelta di coltivare mais e costi alle stelle per gli allevamenti di bestiame.
Intanto procedeva con un ritmo di 8 mq./secondo la perdita di territorio, nella gran parte fertile, per dare spazio a cemento ed asfalto, con l’agricoltura che perdeva la sua base produttiva.
Nel 2004 la registrazione di una pesante crisi dell’agricoltura nonostante i finanziamenti dei tanti Psr dell’Ue, che, vanto e strumenti dei Ministri e degli assessori regionali, sembravano una manna caduta dal cielo, ma, in pratica, vedevano il destinatario, il coltivatore, solo un momento di passaggio delle risorse egli metteva a disposizione e di quelle europee, visto che il trasferimento definitivo era alle multinazionali della chimica, della meccanica, della farmaceutica. E, con l’entrate in gioco delle banche, non più un arricchimento ma un impoverimento del destinatario, la vera e sola vittima del sistema non più nelle mani della politica, ma della finanza (banche e multinazionali).
La crisi strutturale del 2004, che ha anticipato quella economica del 2007/8, è il segno del fallimento di uno sviluppo economico che ha dimenticato e messo ai lati l’agricoltura . Come togliere l’asse che serve a far girare la ruota!
Lo scorso anno, ad aprile, la Fao ha dichiarato il fallimento dell’agricoltura industrializzata ed ha elencato i tanti disastri di ordine politico, economico, sociale, che, purtroppo, continua a provocare.
Mentre scrivo c’è da registrare, anche oggi come ieri e i giorni passati, la chiusura, sotto l’indifferenza generale, di 50 aziende, tutte piccole e medie, che vuol dire abbandono di territorio con tutte le conseguenze negative sotto l’aspetto della produzione di cibo, salvaguardia e tutela dell’ambiente, bellezza dei paesaggi. In pratica l’immagine stessa dei tanti territori, nella quasi totalità montani e collinari, visto che i prodotti, diretti o trasformati della terra coltivata, del bosco o dei pascoli, sono della propria origine i testimoni, spesso, i più importanti.
Aziende vittime proprio dell’agricoltura/zootecnia più sostenuta, quella industriale, dell’intensivo e super intensivo sotto ogni forma e aspetto.
Il mio No alla riduzione della biodiversità con gli oliveti super intensivi ha lo stesso tono e la stessa rabbia del No alla soia a spese della foresta amazzonica; alle stalle di animali vittime di menti criminali; No all’olio di palma perché distrugge foreste ricche di biodiversità vegetale e, ancor più animale con l’eliminazione di un nostro simile, l’orangutan; No allo spreco di acqua, soprattutto potabile; No alla distruzione della fertilità dei nostri terreni. No a continuare a sostenere imprenditori senza scrupoli, banche e multinazionali, espressioni di un sistema, il neoliberismo, che non ha il senso del limite, del finito, ma solo del profitto per il profitto, il dio denaro. La tecnica del tutto e subito non apre, ma chiude al futuro, perché solamente distruttiva.
Il mio Sì, invece, alla ricca e favolosa biodiversità olivicola - dà all’Italia un straordinario primato di oltre 550 varietà pari al doppio di quelle diffuse nel mondo - e alla bellezza dei paesaggi, due valori così bene espressi dai nostri oliveti tradizionali; al recupero degli oliveti abbandonati (si parla di un 30% in media in Italia); a un piano di nuovi impianti di olivi (800 ettari) proprio là dove c’è bisogno di recuperare e preservare il territorio, far rivivere la ruralità con il rilancio dell’agricoltura, del pascolo, degli allevamenti e la cura dei boschi. Una necessità anche alla luce della situazione del clima. Tutto all’insegna della sostenibilità con la diffusione del biologico e altre pratiche rigenerative della fertilità dei terreni per ottenere prodotti sani e offrirli al consumatore con i caratteri propri della qualità nel segno della bontà e del benessere propri di un’alimentazione sana e salutare.
Il mio Sì alla qualità e alla diversità, a un rapporto stretto produttore – consumatore, quale premessa di un rapporto, altrettanto stretto, città-campagna. Sì alla ripresa del dialogo dell’uomo con i suoi animali. Sì ad una stalla che apre al benessere di ci vive dentro. Sì ad un’azienda all’insegna del sociale, sapendo la sua forte incidenza circa il possibile recupero della diversità. Sì a un’azienda multifunzionale aperta alla ospitalità.
Sì, per chiudere questa mia nota, tutto il mio entusiasmo per i processi che ridanno all’agricoltura una continuità con i suoi diecimila anni di storia, sapendo che ogni forzatura nei confronti del tempo diventa un boomerang per i territori e l’uomo che di essi si ritiene il protagonista.

Commenti

  1. Bravissimo Pasquale
    Analisi lucida e drammatica nella sua oggettiva verità

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