AGRICOLTURA BIOLOGICA PER RIPRENDERE IL DIALOGO CON LA TERRA

dalla Rivista                    
OINOS - VIVEREDIVI n° 25
rubriche SPAZIOLIBERO 

Anteprima
     
 È bastato poco più di qualche decennio per dichiarare fallito  la tanto proclamata e decantata rivoluzione verde, che ha dato il via all’agricoltura industrializzata. La dichiarazione di fallimento, Aprile 2018,  è dell’Agenzia specializzata dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Fao, che si occupa di agricoltura e alimentazione e opera, con i suoi paesi membri, per vedere come ridurre la fame nel mondo e contribuire alla crescita economica mondiale. 

Un modello fallito a causa del largo uso di fertilizzanti  e pesticidi, arature profonde, coltivazioni intensive e superintensive, cioè un insieme di fattori che hanno ferito la Terra; distrutto milioni e milioni di ettari di foreste; limitato, se non esaurito, la fertilità del suolo; contaminato l’acqua; ridotto la biodiversità; aumentato l’effetto serra, mettendo sempre più in crisi il clima, che, secondo gli esperti, riceve il 24% del rilascio dei gas serra dall’attuale modello di agricoltura e dall’uso di suolo e foreste.                                                                     Diversamente dall’agricoltura biologica, che, utilizzando il 45% in meno di energia rispetto a quella imperante oggi, produce il 40% in meno di gas serra. Una risposta importante alla soluzione di un problema, il clima, che rischia, se non si mettono in campo scelte radicali possibili, di diventare irreversibile. 

Il problema non è più capire se aumenta il pericolo clima e di quanto aumenta, ma di porre freno a un processo che punisce, mette in difficoltà la Terra.

Un modello, quello dell’agricoltura industrializzata, che continua a produrre disastri ambientali e sanitari e, con essi, sociali ed economici, tanto più in quei territori – penso soprattutto a quelli italiani - montani e collinari, caratterizzati da un’agricoltura contadina, pascoli e allevamenti familiari, che la “politica della rivoluzione verde” ha comunque coinvolto e, col tempo, sconvolto fino a ridurla a poca cosa, nel momento in cui si è voluto far passare l’obiettivo della quantità al posto di quello della qualità. Il primo dei risultati è stato che, non riuscendo a garantire   un reddito, anche minimo, ai coltivatori, ha prodotto una fuga dalle campagne con l’abbandono di intere aree, quelle interne, e la perdita di ruralità. 

Il fallimento dichiarato dalla crisi dell’agricoltura del 2004, strutturale, che non a caso anticipa la grande crisi globale del 2007/8, e lo si è visto quando il settore primario dell’economia è stato messo ai margini di uno sviluppo, che continua, soprattutto in questi ultimi cinquant’anni, a produrre pesanti disuguaglianze, fughe dai propri territori, povertà e distruzione di territori vasti, in particolare di foreste, con una perdita crescente di biodiversità.

Un modello fallito, ma non per le multinazionali  e la finanza, che, con l’agricoltura industrializzata o rivoluzione verde, hanno aumentato oltre ogni previsione i loro già lauti profitti, e, continuano, senza soste, con le loro azioni lobbistiche a definire le scelte politiche e programmatiche. Tutto nella continuità di un uso smodato di mezzi e di prodotti che frenano, invece di dare la spinta che serve allo sviluppo sostenibile nelle campagne, ancor più nelle nostre, dove appaiono le mille e mille colline sovrastate da borghi, paesi, a significare, con la diversità della natura, la nostra diversità quale identità. Sta qui, nell’origine, e nella diffusa agricoltura contadina la nostra ricchezza di biodiversità, espressione, anche, di qualità. Patrimoni unici al mondo nel campo della viticoltura, olivicoltura e ortaggi, che permettono al cibo italiano di avere peculiarità in quanto a bontà.

Non c’è ancora la presa d’atto, soprattutto da parte dei nostri governi, di questo fallimento, del potere delle multinazionali e della finanza e della loro capacità di imporre scelte politiche e programmi a livello dei governi nazionali e del Parlamento europeo. Per esempio, dei 62, 5 miliardi di euro (41.5 miliardi di euro destinati dalla Ue all’Italia e 21 miliardi di cofinanziamento nazionale), la parte che va al biologico è di 1,8 miliardi di euro, cioè il 2,9% delle risorse, pur rappresentando, le colture bio, il 14,5% della superficie coltivata. Anche nei Psr (Piani di sviluppo regionali) l’attenzione è al di sotto delle aspettative con solo il 9,5% delle risorse destinate all’agricoltura biologica, cioè alla prima e grande scelta nel campo delle innovazioni. In pratica invece di premiare chi, con maggiori costi e maggiori sacrifici, fa agricoltura biologica, cioè chi ha scelto un modello di agricoltura alternativo a quello attuale, per una nuova alleanza con la Terra, lo si penalizza come a volerlo spingere a ripensare la scelta fatta e invitarlo a tornare al passato.

Un altro dato ed è quello che vede il nostro Paese tra i maggiori consumatori di pesticidi a livello europeo (5, 7 Kg./ha di fronte ai 3,8 nella Ue) con un aumento della spesa, nel decennio 2006 – 2016, attualizzata ai prezzi correnti, pari 50%, mentre per i concimi è stato del 35%.  Due dati che fanno pensare subito alla perdita di fertilità del suolo e al bisogno anche del piccolo produttore di ottenere quantità, ma che fanno capire anche una perdita di ruolo di chi dovrebbe difendere il coltivatore e sostenerlo nella scelta di un’agricoltura sostenibile che produce qualità, cioè salute per chi consuma il suo cibo.  

Ecco che prendere atto dei disastri  serve per cambiare rotta e non stare lì ad assecondare interessi che puniscono, con i coltivatori, i consumatori e gli stessi nostri soli contenitori di ricchezza, i territori, veri e propri tesori, soprattutto di qualità e di biodiversità. Serve, anche, per camminare, non con la testa girata all’indietro, ma con lo sguardo rivolto in avanti in modo da poter  scegliere un nuovo percorso, quello della qualità e diversità bio, per cogliere, con la possibilità di un reddito equo e sicuro, più di un obiettivo, in primo luogo il domani. 

Pasquale Di Lena

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