Tufara, l'olio, l'olivo e il sogno del domani
Non so se è già moda, ma so, se non ancora lo è, che presto
verrà il tempo in cui si parlerà sempre più di abbinamento dell’olio al cibo,
cotto o crudo, e quando ciò accadrà si parlerà soprattutto di oli e sempre meno
di olio. Stanno per nascere, in Italia e nel mondo, generazioni di educatori di
Olio di oliva (non solo assaggiatori), che spiegheranno le origini della
qualità di un olio, - nel senso di territorio, varietà e professionalità del
produttore - delle sue preferenze e
delle sue scelte, in cucina e a tavola.
A Tufara, sulle
terrazze del suo antico Castello, tavoli arredati per una cena medievale a base
di Baccalà in crema di ceci, condito con un olio monovarietale, delicato, il “Gentile di Larino” dell’Oleificio Bruno Mottillo della Città
frentana; una zuppa di legumi (a pezzènte), esaltata da un olio leggermente più
fruttato, della cultivar “Sperone di
gallo”, ricavato dai mille olivi dell’azienda locale, Masseria Vittore di Giuseppe Veredice. A seguire una degustazione
di latticini e formaggi freschi, che hanno trovato nelle gocce sperse di questi
due oli il piacere di stare insieme.
So che qualche sera fa di questa seconda metà di luglio mi
sono ritrovato dentro un Castello
Longobardo, nato come Fortezza, a vivere sulle sue terrazze, che: da una
parte, dominano la piazza e la Collina che ombreggia la chiesetta di San Giovanni l’Eremita, un antesignano
di Francesco di Assisi, vissuto a cavallo dell’XI secolo, che è nato qui e morto, a Foiano, in provincia di Benevento;
dall’altra le scalinate che affiancano la Chiesa
di San Pietro e Paolo (poco dopo il mille) puro stile romanico, il
campanile di una Chiesa più moderna e, oltre, il paesaggio segnato dal fiume
Fortore e i monti della Daunia, in provincia di Foggia. Sto parlando di Tufara, uno dei 136 paesi del Molise,
incastrato tra la Puglia e la Campania, che ha secoli da raccontare, cose belle
da far vedere e un territorio da visitare, con la campagna ricca di bontà,
oltre che di paesaggi belli.
Giuseppe Veredice e Bruno Mottillo
con i due oli protagonisti
della cena medievale
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Investito del compito di presentare questi azzeccati
abbinamenti, matrimoni perfetti, e memore
della difficoltà a parlare e farsi ascoltare da persone sedute a tavola (per
l’occasione erano più di duecento i commensali), ho sentito più timore del
solito prima di iniziare, ma il silenzio improvviso l’ha fatto volare via,
oltre le mura possenti del Castello.
Il racconto dell’olio di oliva e della sua capacità di
esaltare ortaggi crudi al pinzimonio o un’insalata mista, un brodetto di pesce
o un’insalata di mare; un primo al pomodoro, al ragù, o, anche, semplicemente
aglio e olio; un minestrone o un piatto di riso con un uovo sbattuto e girato
prima di spegnere il gas; una ciabbotta
o peperonata; le buone verdure spontanee oltre quelle dell’orto, i latticini e
i formaggi freschi, le carni bianche e le carni rosse; uova fritte o sode.
Il migliore abbinamento è quello offerto dal territorio, con
tutto quello che riesce a far nascere e vivere insieme con l’olivo. Il
territorio non sbaglia in fatto di abbinamento/i, e, ancor più, quando sono
scandite le stagioni.
L’abbinamento dell’olio, come quello del vino, è il rispetto
di regole dettate dallo studio, la ricerca, la pratica.
Poche parole per ridare voce al dialogo che la tavola sempre
crea e spazio a Giovanni ed ai suoi collaboratori, che hanno smontato e montato
due volte i tavoli per colpa di un temporale che, per fortuna si è stancato
subito di buttare acqua con i secchi.
Una serata al lume di candele e di torce, con l’olio grande protagonista in
un territorio vocato all’olivo ed alla sua varietà eletta, lo “Sperone di gallo”, una delle 19 che
formano la biodiversità olivicola molisana. Un territorio vocato che solo un
rilancio dell’agricoltura e della sua olivicoltura può salvare dall’abbandono e
mettere nelle condizioni di valorizzare i suoi ambienti e paesaggi, le ricche
testimonianze storico-culturali e la bontà della sua gastronomia, avvalendosi
della risorsa più nota che ha, il diavolo
della tradizione, la maschera eletta del suo Carnevale. Il diavolo della pelle
di capra, a rappresentare, Dioniso, il dio greco della
vegetazione, quello che muore e rinasce, ma, anche, del vino, sobrio e ubriaco,
saggio e folle.
Bisogna tornare a Tufara,
il paese nato su una roccia tufacea, per continuare a spiegare e vivere il rito
dell’olio e del suo abbinamento, ma, anche, per fare dell’olivo e della sua
olivicoltura il sogno del domani di questo piccolo paese che ha tante cose da
far vedere e raccontare, amici da salutare.
Pasqualedilena@gmail.com
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