Il concetto problematico della morte
di
Umberto Berardo
Non
c'è niente di più umano, a nostro avviso, che dedicare il giorno della
commemorazione dei defunti al ricordo di quanti hanno lasciato fisicamente la
vita ed al senso che essa può avere.
Sappiamo
che molti, considerandolo nella sua negatività come eliminazione degli elementi
biologici, cerebrali, psicologici e sociali che costituiscono la vita come
l'insieme delle relazioni umane, tendono a rimuovere l'evento della morte.
C'è
chi, come ad esempio J. P. Sartre, lo considera un "puro fatto" e ne
ha una concezione legata al termine dell'esistenza ed al suo concludersi nel
nulla, mentre altri, legati ad un'escatologia religiosa cristiana, lo vedono come una separazione dell'anima dal
corpo per l'inizio di una nuova vita in un mondo ultraterreno o, come
nell'Induismo, in una reincarnazione o ancora, come nel Buddhismo, nella
"rinascita" ovvero il persistere in eterno della vita di ogni essere
vivente come parte dell'intero universo che dura per sempre.
Poiché
tanta parte del pensiero filosofico e religioso ha considerato la morte
fondamentalmente estranea alla condizione primigenia della natura umana, si è
cercato in qualche modo di dare una spiegazione della sua origine e della
funzione che essa assume nel percorso esistenziale.
In
ogni caso, al di là di qualsiasi interpretazione escatologica o di
rappresentazione maturate nel corso dei
secoli, il decesso di una persona appare ai più come un elemento negativo al
pari della sofferenza e del dolore e come tale è concepito nell'immaginario
collettivo.
La
stessa definizione di morte, legata com'è stata dapprima all'idea dell'arresto
cardiaco ed oggi sempre più a quello encefalico, è problematica a livello
concettuale con diversificazioni connesse ai criteri che demarcano il confine
tra la vita e la sua fine ed al riconoscimento dei requisiti minimali perché si
possa parlare di esistenza.
Nonostante
le sollecitazioni di molti filosofi, quali Epicuro, Seneca, Sant'Agostino, Kierkegaard,
Heidegger, a vedere nella morte l'espressione della finitezza dell'essere umano
e ad accettarla serenamente come un elemento inscritto alla dimensione
dell'esistenza ed al processo del genere, in realtà continua ad essere vissuta
come un momento terribile ed angoscioso legato soprattutto alla fine di
un'esperienza di relazioni affettive, culturali ed umane difficili da
interrompere per chiunque.
Sicuramente,
come in Kierkegaard, appare ai più un'ineluttabile aporia della condizione
umana.
Nella
società opulenta e benestante non manca chi, quando pensa alla morte, ha
davanti unicamente quella dell'altro, come se la propria potesse essere sospesa
in attesa di una sua sconfitta da parte di
strumenti scientifici innovativi.
Ci
sono perfino cristiani, come scrive Joseph Ratzinger nell'enciclica "Spe
Salvi", che "rifiutano la
fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile.
Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita
eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo".
Al
tema di cui ci stiamo occupando sono legate tra l'altro questioni molto spinose
quali quelle connesse ai concetti di sofferenza, dolore e panico che
accompagnano soprattutto soggetti con malattie incurabili che ne vivono lo
stato terminale.
È
rispetto a tali situazioni che s'intensifica una riflessione articolata, spesso
contrastata e diremmo anche sofferta sull'eutanasia non solo tra atei e
credenti, ma anche all'interno di posizioni apparentemente omogenee.
Certo
non avremo esperienza della morte personale, ma ne abbiamo a sufficienza di
quella altrui che abbiamo il dovere sociale di rendere quanto più possibile
serena.
Come
scrive opportunamente Lilia Sebastiani " uno degli aspetti più penosi del morire ... è l'umiliazione
psicofisica, l'abbandono, la morte sociale e relazionale che precede la morte
fisiologica " .
Noi
crediamo che per riconciliarci con la condizione di esseri soggetti alla
mortalità abbiamo bisogno anzitutto che la nostra vicenda umana come individui
sia vista all'interno di un universo in cui la vita continua anche dopo la
nostra fine ed al cui scorrere noi partecipiamo con il nostro segmento
esistenziale attraverso gli aspetti positivi che riusciamo a farvi confluire con
quanto trasmettiamo a quelli cui abbiamo dato la vita biologica ed agli altri
cui ne abbiamo trasmesso un'altra di natura scientifica, etica e culturale.
Stiamo
pensando, ad esempio, in questo momento a quanto hanno lasciato al fluire della
vita successiva dell'universo soggetti come Francesco d'Assisi, Mohandas Karamchand
Gandhi o Martin Luther King.
Il
nostro compito, come già sosteneva Seneca, è quello di vivere anche la morte non
perdendo mai la razionalità ed in perfetta sintonia con la natura umana di cui
la prima è parte.
Anche
quanti, come noi, hanno fede in una vita che nell'universo continua nell'amore
di quel Dio che ci libera ogni giorno dal male con il suo messaggio salvifico,
sanno che il momento della morte, per i suoi aspetti di separazione dalle
relazioni terrene, ha bisogno di momenti di dignità che devono essere il più
possibile legati agli affetti familiari più profondi e delicati.
In
ogni caso è l'amore più intimo che deve abbracciare anche chi si sta spegnendo
come ci ha insegnato per secoli la migliore civiltà contadina di cui siamo
figli.
È
per questo che vediamo con sospetto e preoccupazione i cosiddetti "hospice"
per i malati terminali, a meno che non siano capaci di ricreare davvero un
clima familiare autentico.
Se
osservate i massacri delle guerre che continuano da secoli, concorderete sicuramente
nell'idea che la morte non è un concetto da rimuovere, ma sul quale attivare
attentamente una riflessione perché almeno lo si cancelli dalla storia quando
non è un evento naturale ma provocato come effetto del male che s'insinua nella
società attraverso la cattiveria degli esseri umani
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