Il pacco della zia d’America

Riporto quest'articolo che avevo messo a disposizione di un quotidiano del Molise su precisa richiesta di una sua brava collaboratrice che io stimo. Doveva uscire per Natale, ma non è uscito. Ho chiesto e mi è stato detto che verrà pubblicato. Ma Natale è passato!
Per non perderlo, lo posto sul mio blog visto che tutte le vigilie sono uguali.


zia Evelyn
Il cibo è sacro e questa sua sacralità viene fuori sia quando manca, e, ancor più, quando è al centro dell’attenzione. Per me Natale ha sempre rappresentato, e tutt’ora rappresenta, l’esaltazione di questa sacralità e, non solo, della convivialità che una tavola imbandita sempre crea.
Il cibo, quale fonte importante di cultura, diventa, nei tre giorni che io considero Natale (la vigilia, Il 25 e, il giorno dopo, dedicato a Santo Stefano), parte di quel rito straordinario che è la natività, il dio che si fa uomo. La più bella e la più grande delle Feste che il cristiano celebra da duemila anni.
Anche il cibo, quale energia primaria dell’uomo e degli animali, è vita.
Natale, nel suo significato, non è cambiato, e, come in altri momenti difficili della storia dell’umanità, vive oggi la sua grande attualità, mentre è cambiato, e profondamente, l’attesa e il rito della tavola, del cibo. Se, fino agli inizi degli anni ’60  il Natale era l’eccezione che squarciava la quotidianità e, come tale, dava spazio all’attesa, oggi è esso stesso quotidianità che non crea più le emozioni di una volta, soprattutto a tavola.
Cerco di ricordare e raccontare i Natale che a me hanno dato emozioni, quelli duri del dopoguerra e dell’inizio degli anni ’50, con me bambino e poi ragazzo, che il Natale se lo sognava spesso e lo aspettava con l’odore del mattino ancora buio che ti portava alle “Novene” dal 16 al 24 di dicembre.  
  Natale era proprio così, la grande attesa che andava aumentando alla fine di quelle giornate grigie di un autunno inoltrato, con il freddo che ti assaliva e gli odori, fili sottili di cipolla e aglio sfritti, di ciabbotte o di verdure lessate, pizze di granturco sotto la brace, ceci e fave abbrustolite nella sabbia bollente di fiume, pani ancora caldi che, si univano a quelli dei fumi che calavano dai camini o uscivano dalle minute case e ti raggiungevano là dove, con i compagni di giochi, chiudevi la giornata prima di rientrare e vivere intorno al focolare il resto della serata.
Erano i momenti in cui aspettavo l’invito di mamma Angelina di andare a portare o a prendere qualcosa dalla comara Ausilia, sempre pronta, se non stava già cucinando, a offrirti un assaggio di quello che aveva già preparato. Nei giorni vicini alla grande festa, il suo gran da fare era per le scarpèlle, ed io controllavo ogni mossa per arrivare puntuale al momento del rito della loro friggitura per gustarle e goderle ancora bollenti, calde. Un impasto di lievito madre, identico a quello che si passava di casa in casa per impastare il pane come un impegno a restituire la zuppiera colma di nuovo pane bianco, una volta che il lievito usato si era annullato nell’impasto.
Un prestito a pronta restituzione che, noi ragazzi, portavamo correndo nelle nostre case nel segno della solidarietà e, ancor più, della reciprocità, i due valori del mondo rurale e della civiltà contadina che la modernità e il cosiddetto progresso, espressi con i caratteri del consumismo e dello spreco, hanno cancellato togliendoci perfino il  gusto della lite, soprattutto fra donne, che sfociava sempre in una pronta riappacificazione nelle strette viuzze (i ruoie), le stesse che davano fiato ai venti con il permesso di fischiare come meglio sapevano fare.
Il lievito - quello usato per le scarpèlle - una volta sciolto nell’acqua veniva, con l’aggiunta di farina, impastato e, una volta reso omogeneo, messo in una ciotola e coperta con un panno (a mappine). Lasciato riposare in un posto che sapeva raccogliere il freddo delle giornate di dicembre, che richiamava il Natale.    Il giorno dopo si lasciava in un luogo dove poteva arrivare il caldo del camino o della stufa economica, fino a sera, quando iniziava il rito dell’olio messo a friggere nella grande padella e, una volta pronto, un pezzo dell’impasto tirato a striscia dalle abili dita, unte di olio, della comara Ausilia. Una donna più piccola di mia madre, che non era poi così alta, che io ho visto più volte, in coppia, entrambe vestite di nero, intorno a un tavoliere, fare la sfoglia, poi i pani e dai pani tirare fuori pezzi che l’abilità delle loro mani rendeva corde e, una volta tagliate, dadi che venivano incavati per diventare così cavatelli, i più piccoli e i più deliziosi di questo mondo che, mia sorella Carmela, ancora riesce a fare.
La pasta lievitata delle scarpèlle prendeva forma nella padella piena di olio, stranamente chiassoso per essere sempre quieto per carattere, e poco dopo erano già scarpèlle dorate pronte per sciogliersi in bocca, ancor prima di essere girate in un contenitore pieno di zucchero e diventare il dolce della cena di magro della vigilia e quella del pranzo di Natale del giorno dopo. Quelle che avanzano, nei giorni successivi, si mettevano sulla brace a riscaldare.
Quando mi sono iscritto all’Università e sono partito per Firenze, il mio rientro per Natale era sempre puntuale e si combinava con il rito delle scarpèlle. Le volte che tardavo di qualche ora o di un giorno, la comara Ausilia mi aspettava sapendo del mio applauso.
Portavo dentro i nove giorni della “Novena” di Natale che, da bambino, avevo vissuto intensamente, quando assonnato e infreddolito andavo la mattina presto, con il suono  della campana, alla vicina Chiesa di Santa Maria, affascinato soprattutto dal bellissimo presepe con la capanna vuota fino alla notte di Natale, quando si riempiva del bue e dell’asinello, di Maria e di Giuseppe e del Bambin Gesù (u bambenielle) adagiato su un giaciglio di paglia.
Mettere insieme la cena della vigilia e il pranzo del Natale non era facile nella casa di mia nonna Giustina, dove mia madre, qualche anno dopo la morte di mio padre, nel bombardamento di Foggia del 1943, si era trasferita per assistere lei, paralizzata in un letto, e accudire ai fratelli non ancora sposati, con tre dei quattro, Vittorio, Tonino e Mario, autista il primo, muratore il secondo e operaio il terzo, e Umberto arruolato in polizia, che non sempre riusciva a tornare.
E Umberto era il solo ad avere uno stipendio fisso, con gli altri tre che dovevano penare per essere pagati quando riuscivano a trovare un lavoro, indifesi com’erano per mancanza di leggi rispettose dei loro diritti.
E, come un miracolo, ogni anno arrivava puntuale nel giorno della vigilia, il pacco di zia Antonietta (Ietta), la sorella di nonna, che viveva con suo figlio Nino, la nuora Evelyn e i nipoti Frank e Eve, a New York, nel Bronx.
Un pacco, di cui ricordo le forme, le scritte con il pennarello e la ceralacca. Ricordo anche, con noi tutti in cerchio, la cura che mamma aveva nello scucire la tela di iuta che, poi, ripiegava per conservarla. C’era di tutto, le caramelle e i panni colorati (una nota di colore soprattutto per le donne che erano vestite di nero, a lutto), farina di uova, il caffè, e, cosa, importante, il foglio colorato di 50 o 100 dollari americani (a pezze) che era quello che faceva correre tutti a fare la spesa per la vigilia e il pranzo di Natale e di Santo Stefano.
Ho conosciuto zia Antonietta nel suo primo viaggio in Molise, in compagnia con suo figlio Nino e sua nuora Evelyn, che poi è tornata ancora in Italia e nel Molise, l’ultima volta a Roma, tre anni fa,  per festeggiare con noi parenti e Flora i suoi 100 anni. Oggi, a distanza di 3 anni, vive, con la figlia Eve e il genero David, nella sua bella casa in Florida.
E’ il pacco della zia d’America il mio ricordo più presente quando penso al Natale, insieme a quello della confusione con i miei amati  cugini e della lamentela ricorrente di mio zio Tonino per suo fratello Mario, titolare di un negozio di alimentari, che, per chiudere la contabilità della giornata, saliva tardi dal negozio sottostante.
A questo ricordo devo aggiungere quello della preparazione delle pietanze in una piccola cucina sovraffollata di zie che avevano preso il posto di mia madre, ormai tutta presa dal negozio aperto da mio zio Mario nel 1950.
Il cavolfiore fritto con la pastella, insieme con il baccalà, che non arrivavano mai a tavola con noi, piccoli e grandi, che facevamo a turno a rubarle e ingoiarle; il baccalà lesso con aglio e prezzemolo e quello alla spagnola che mandava mia nonna Luisa; gli spaghetti con i senapi e le acciughe sfritte nell’olio e, ancora, un altro primo le linguine con l’anguilla al pomodoro; l’anguilla in padella sfumata con una spruzzatina di aceto e pesce fritto o in brodetto, insalata e finocchi, e, per allungare la serata, olive appassite (capate) condite con bucce di mandarino, pezzetti di aglio, origano e gocce di olio, mandorle e noci, taralli con il finocchio e con l’uovo, scarpèlle, rosacatarre, mostaccioli e calzoni. Se la sera della vigilia allungavano la serata e davano spazio a qualche bicchiere di vino in più, il pomeriggio di Natale  permetteva l’incontro del pranzo con la cena e dava spazio a chiassose tombolate.
Natale e il ricco antipasto di salsicce e salumi e uova lesso, i piatti a base di carne, il ragù con la braciola arrotolata, la salsiccia di fegato, le “zite” spezzate, il formaggio grattugiato, l’agnello con le patate,i broccoli stufati, mentre a Santo Stefano c’era il brodo con i pezzetti di cardo, la gallina ripiena e il lesso con la giardiniera ben conservata in un barattolo.
Allora, nel giorno di Santo Stefano, quando tutti avevano un animale in casa o sotto casa, c’era il rito dei tre giri intorno alla chiesa dedicata al santo, non lontana dal Palazzo ducale. Tre giri per scongiurare possibili mal di pancia dei cavalli, asini e muli. Personalmente ho sempre pensato ch’era una scusa per non dire che servivano al padrone per digerire tutto quello che aveva mangiato la sera della vigilia e il giorno di Natale.
Buon Natale e ancora grazie zia Ietta e zia Evelyn per il pacco che, quando ce n’era davvero bisogno, è sempre arrivato puntuale.
pasqualedillena@gmail.com

 

 

 

 

 

 

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