Xylella ed Expo, storie diverse ma un unico comun denominatore
Nutrire il pianeta, un messaggio bello che, con la presenza delle multinazionali, si contraddice. La Xylella che da fastidiosa è diventata cattiva, sarà ancor più cattiva, anzi criminale, se si dà continuità a un modello di sviluppo di cui sembra non se ne possa a fare a meno
Per quanto riguarda l’Expo non credo di andarci. Per non creare equivoci dico subito per più di una ragione, non certo quella che a dominare la sua immagine sono le multinazionali, cioè i grandi affari che stanno affossando l’agricoltura contadina, i nostri territori più fertili e più vocati al cibo di qualità, e, cosa ancora più grave, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta.
Ritengo, però, davvero un peccato la messa in bocca di queste consorelle affamate di profitti; campi fertili; semi; tradizioni, soprattutto quelle gastronomiche; qualità e biodiversità, un messaggio fortemente incisivo come“Nutrire il pianeta”.
Un messaggio bello, incredibilmente vero, visto che il pianeta ha bisogno di essere nutrito, soprattutto con amore, che, con la presenza delle multinazionali, si contraddice, ed ecco che non ha più la stessa forza.
Lo stesso discorso vale per le montagne di cemento buttato, quando gli organizzatori potevano fare proprio il suggerimento di Slow food, cioè la sua sostituzione con costruzioni in legno. Strutture possibili da riciclare in ogni luogo dove nasce e cresce la voglia di stare insieme, insegnare e fare agricoltura, in pratica “nutrire” la speranza e il sogno del domani. Un suggerimento che, se preso in considerazione, poteva diventare un esempio stupendo per il mondo intero, una vera e propria semina di speranza per il futuro e un monito proprio per le multinazionali che hanno bisogno urgente di curarsi di questa loro bulimia per ridare spazio alla ragione.
Ecco due le due ragioni che mi portano a dire che l’Expo, la grande vetrina sul mondo, è una grande occasione, in parte persa.
Infatti, non posso non tener presente, in questa mia critica, un elemento fortemente positivo di questo grande evento internazionale che rende l’Italia protagonista, e cioè, dovendo esso parlare di cibo, non può fare a meno di mettere in grande luce il valore ed il significato del territorio e delle sue fondamentali risorse. Prima fra tutte la ruralità con la sua agricoltura, l’attività che, da oltre diecimila anni fa produce cibo, cioè mette a disposizione dell’uomo l’energia, quella vitale
Ecco, l’Expo 2015, una magnifica opportunità per un rilancio culturale dell’agricoltura e la sua campagna, i tanti valori che il mondo moderno, sotto la spinta di un modello di sviluppo, quello capitalistico, divenuto sempre più assoluto, ha pensato bene di mettere ai margini, ridurre a ben poca cosa, con l’abbandono dell’agricoltura e l’abuso di territorio. Un abbandono prima di tutto culturale.
Ho avuto l’opportunità di vivere una lotta, qui nel mio Molise, e di dare il mio contributo, soprattutto politico, a far vincere il territorio contro l’idea e il progetto, fatti propri dalla classe politica e dirigente locale, di una multinazionale del latte, la Granarolo, di voler cementificare (non essendo più possibile in Emilia e Lombardia), un chilometro quadro di suolo fertile per realizzare una stalla industriale capace di ospitare 12.000 manze.
Ho detto poi, rispondendo alla seconda domanda che mi è stata posta, che la questione Xilella, l’insetto diventato famoso suo malgrado, rientra in questa logica di occupazione del mezzogiorno per fare quello che non è più possibile fare altrove. In tal senso ho espresso il mio parere in tempi non sospetti, lo scorso anno, quando è cominciata a circolare la notizia della Xilella.
Questo insetto, da sempre noto perché fastidioso, rappresenta, a mio parere, una grande opportunità per nuove speculazioni, di ogni tipo, che possono essere bloccate solo da scelte capaci d’ intaccare gli interessi del capitalismo dominante e di mettere in crisi quella sua logica di distruzione e di spreco, in primo luogo dei valori e delle risorse propri del territorio, o meglio, dei territori che fanno parlare di mille meridioni.
Territori, oggi, racchiusi in quella parte del Paese per lungo tempo considerata arretrata, marginale, che ha colto l’attenzione di illustri studiosi e di forze politiche fino a qualche decennio fa. Penso alla “questione meridionale”e a quella agraria, entrambe, però, messe da parte, come se risolte per sempre, quando si sa, invece, che queste due fondamentali questioni si possono risolvere solo se ci sarà una svolta capace di lottare contro un modello, che, con la crisi, ha mostrato non solo il proprio fallimento, ma anche di essere la colpa dell’abbandono. Si tratta di frenare il suo percorso e, poi, bloccarlo, e, di farlo mettendo in campo un altro modello, alternativo a quello attuale, che – torno a sottolinearlo - ponga al centro il territorio, con i suoi valori e le sue risorse, prima fra tutte l’agricoltura.
Oggi il Meridione, e così l’Appennino, con i loro territori, la loro ruralità e la ricca agricoltura contadina, sono oggetto di desiderio di chi ha bisogno di territorio per appagare la propria bulimia. Vanno difesi, tutelati perché, se non distrutti dall’avidità imperante, possono diventare davvero strategici per avviare il nuovo modello di sviluppo di cui ha bisogno il Paese, cioè quello che parte dal patrimonio che uno ha per spenderlo e valorizzarlo, che è poi il modo più sicuro per preservarlo e tutelarlo. Penso alla cultura e alla storia, all’ambiente ed al paesaggio, alle attività legate all’agricoltura, alla pastorizia, ai boschi, alle tradizioni che rappresentano l’anima di una comunità.
La Xylella che da fastidiosa è diventata cattiva, sarà ancor più cattiva, anzi criminale, se si dà continuità a un modello di sviluppo di cui sembra non se ne possa a fare a meno come se fosse l’unico possibile. La verità è che non lo è, ce ne sono altri.
Chiudo dicendo che se torna la voglia, soprattutto alla Ue, di distruggere gli olivi posso dire, non senza rammarico, che io e tanti altri, che, meglio di me, hanno spiegato la questione, avevamo ragione e questa, per me, non sarà mai una consolazione.
Ritengo, però, davvero un peccato la messa in bocca di queste consorelle affamate di profitti; campi fertili; semi; tradizioni, soprattutto quelle gastronomiche; qualità e biodiversità, un messaggio fortemente incisivo come“Nutrire il pianeta”.
Un messaggio bello, incredibilmente vero, visto che il pianeta ha bisogno di essere nutrito, soprattutto con amore, che, con la presenza delle multinazionali, si contraddice, ed ecco che non ha più la stessa forza.
Lo stesso discorso vale per le montagne di cemento buttato, quando gli organizzatori potevano fare proprio il suggerimento di Slow food, cioè la sua sostituzione con costruzioni in legno. Strutture possibili da riciclare in ogni luogo dove nasce e cresce la voglia di stare insieme, insegnare e fare agricoltura, in pratica “nutrire” la speranza e il sogno del domani. Un suggerimento che, se preso in considerazione, poteva diventare un esempio stupendo per il mondo intero, una vera e propria semina di speranza per il futuro e un monito proprio per le multinazionali che hanno bisogno urgente di curarsi di questa loro bulimia per ridare spazio alla ragione.
Ecco due le due ragioni che mi portano a dire che l’Expo, la grande vetrina sul mondo, è una grande occasione, in parte persa.
Infatti, non posso non tener presente, in questa mia critica, un elemento fortemente positivo di questo grande evento internazionale che rende l’Italia protagonista, e cioè, dovendo esso parlare di cibo, non può fare a meno di mettere in grande luce il valore ed il significato del territorio e delle sue fondamentali risorse. Prima fra tutte la ruralità con la sua agricoltura, l’attività che, da oltre diecimila anni fa produce cibo, cioè mette a disposizione dell’uomo l’energia, quella vitale
Ecco, l’Expo 2015, una magnifica opportunità per un rilancio culturale dell’agricoltura e la sua campagna, i tanti valori che il mondo moderno, sotto la spinta di un modello di sviluppo, quello capitalistico, divenuto sempre più assoluto, ha pensato bene di mettere ai margini, ridurre a ben poca cosa, con l’abbandono dell’agricoltura e l’abuso di territorio. Un abbandono prima di tutto culturale.
Ho avuto l’opportunità di vivere una lotta, qui nel mio Molise, e di dare il mio contributo, soprattutto politico, a far vincere il territorio contro l’idea e il progetto, fatti propri dalla classe politica e dirigente locale, di una multinazionale del latte, la Granarolo, di voler cementificare (non essendo più possibile in Emilia e Lombardia), un chilometro quadro di suolo fertile per realizzare una stalla industriale capace di ospitare 12.000 manze.
Ho detto poi, rispondendo alla seconda domanda che mi è stata posta, che la questione Xilella, l’insetto diventato famoso suo malgrado, rientra in questa logica di occupazione del mezzogiorno per fare quello che non è più possibile fare altrove. In tal senso ho espresso il mio parere in tempi non sospetti, lo scorso anno, quando è cominciata a circolare la notizia della Xilella.
Questo insetto, da sempre noto perché fastidioso, rappresenta, a mio parere, una grande opportunità per nuove speculazioni, di ogni tipo, che possono essere bloccate solo da scelte capaci d’ intaccare gli interessi del capitalismo dominante e di mettere in crisi quella sua logica di distruzione e di spreco, in primo luogo dei valori e delle risorse propri del territorio, o meglio, dei territori che fanno parlare di mille meridioni.
Territori, oggi, racchiusi in quella parte del Paese per lungo tempo considerata arretrata, marginale, che ha colto l’attenzione di illustri studiosi e di forze politiche fino a qualche decennio fa. Penso alla “questione meridionale”e a quella agraria, entrambe, però, messe da parte, come se risolte per sempre, quando si sa, invece, che queste due fondamentali questioni si possono risolvere solo se ci sarà una svolta capace di lottare contro un modello, che, con la crisi, ha mostrato non solo il proprio fallimento, ma anche di essere la colpa dell’abbandono. Si tratta di frenare il suo percorso e, poi, bloccarlo, e, di farlo mettendo in campo un altro modello, alternativo a quello attuale, che – torno a sottolinearlo - ponga al centro il territorio, con i suoi valori e le sue risorse, prima fra tutte l’agricoltura.
Oggi il Meridione, e così l’Appennino, con i loro territori, la loro ruralità e la ricca agricoltura contadina, sono oggetto di desiderio di chi ha bisogno di territorio per appagare la propria bulimia. Vanno difesi, tutelati perché, se non distrutti dall’avidità imperante, possono diventare davvero strategici per avviare il nuovo modello di sviluppo di cui ha bisogno il Paese, cioè quello che parte dal patrimonio che uno ha per spenderlo e valorizzarlo, che è poi il modo più sicuro per preservarlo e tutelarlo. Penso alla cultura e alla storia, all’ambiente ed al paesaggio, alle attività legate all’agricoltura, alla pastorizia, ai boschi, alle tradizioni che rappresentano l’anima di una comunità.
La Xylella che da fastidiosa è diventata cattiva, sarà ancor più cattiva, anzi criminale, se si dà continuità a un modello di sviluppo di cui sembra non se ne possa a fare a meno come se fosse l’unico possibile. La verità è che non lo è, ce ne sono altri.
Chiudo dicendo che se torna la voglia, soprattutto alla Ue, di distruggere gli olivi posso dire, non senza rammarico, che io e tanti altri, che, meglio di me, hanno spiegato la questione, avevamo ragione e questa, per me, non sarà mai una consolazione.
di Pasquale Di Lena
pubblicato da Teatro Naturale il 30 aprile 2015 in Tracce > Italia
pubblicato da Teatro Naturale il 30 aprile 2015 in Tracce > Italia
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