Non basta curare la terra bisogna anche conservarla
Queste sacrosante parole di Papa Francesco ci
danno la possibilità di fare qualche riflessione su un incontro, quello di
ieri pomeriggio, che si è tenuto
nell’aula magna dell’Istituto Agrario San Pardo di Larino, dei coltivatori
molisani con la Syngenta, una delle principali aziende dell’agroindustria
mondiale, nata nel 2000 dalla fusione con la Novartis.
Multinazionale svizzera impegnata nella
produzione degli agro farmaci, che, da poco, ha acquisito anche una società
italiana impegnata nel campo delle sementi di cereali, la PSB di Bologna.
Ieri, com’è già successo altre volte nel
passato, la Syngenta era all’Istituto Agrario a presentare i suoi nuovi
prodotti ai coltivatori , giunti numerosi all’appuntamento.
Vista l’ora tarda non c’erano gli
studenti.
Questa multinazionale rientra nella logica
di tutte le altre multinazionali dell’agroindustria che, nel corso degli anni e sull’onda della
propaganda della modernizzazione dell’agricoltura, sono riuscite, con la
complicità della politica e dei governi del nostro Paese e dello stesso mondo
contadino, a prosciugare il reddito dei coltivatori. E non solo, a creare loro qualche
problema di salute, che ha colpito duramente lo stesso territorio, ma, soprattutto,
a dare un forte contributo alla crisi strutturale che, dal 2004, l’agricoltura
sopporta senza soluzioni di continuità.
Una crisi che, anche per l’età avanzata, ha convinto molti coltivatori a lasciare la
terra, con i giovani che non si sono lasciati convincere a rimanere e
impegnarsi nel lavoro dei campi.
Sempre nel corso degli anni, queste
multinazionali sono diventate sanguisughe dei coltivatori, che, non si sa
perché, si sono così legati ai loro prodotti, alle loro macchine ed alle loro
medicine da non poterne fare a meno.
E ciò è avvenuto sulla scia del consumismo
e dello spreco, grazie ai consigli dei tecnici diventati venditori; strutture
commerciali attrezzate a convincere con il supporto di tanta pubblicità e,
soprattutto, con il tacito consenso di chi dovrebbe stare dalla parte dei
produttori coltivatori.
E’ così che queste industrie sono
diventate “benemerite” dell’agricoltura, tanto da ricevere in cambio, con il
sudore e i sacrifici dei coltivatori produttori, denaro da poterne fare
montagne.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti:
un crescente impoverimento delle aziende agricole che ha portato all’azzeramento
del reddito dei produttori, che, costretti a indebitarsi sono diventati sempre
più schiavi, tali da non riuscire più a potersene liberare.
C’è di più, in questo modo ogni giorno
l’agricoltura muore e, con essa, muore il territorio che viene rubato per altri
fini e altri obiettivi.
Se è così, i soli incontri che, in questa fase, possono servire
e tornare utili al coltivatore produttore sono quelli che lo portano a pensare
e operare per vedere come stare sempre più insieme con gli altri rimasti, e,
insieme, come liberarsi dalla dipendenza di queste multinazionali.
Prima di tutto fare a meno dei silenzi e dei cattivi consigli
e ripensare alla cosiddetta “modernità”, che - i risultati lo dimostrano - dà
più il senso di arretratezza, sotto l’aspetto del reddito, della salute del
coltivatore e dello stesso territorio. Invece, pensare seriamente a un nuovo
modo di coltivare, che è quello che guarda alla sostenibilità quale unica possibilità
per uscire dalla crisi che sta distruggendo l’agricoltura, soprattutto quella
contadina.
Cioè prendere in mano la situazione e operare
per fare a meno o ridurre drasticamente il peso dei fitofarmaci, della chimica
e dei cavalli vapori.
Liberarsi delle multinazionali rende più facile
dedicarsi alla produzione della qualità e della tipicità; ridà fiato al
territorio e, in particolare, alla fertilità del suolo; mette a disposizione
dell’agricoltura energie nuove e nuove
speranze.
Un’agricoltura – come ha detto Papa
Francesco – è tale solo se in grado di curare la terra e, soprattutto, di conservarla
per il bene delle future generazioni.
pasqualedilena@gmail.com
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