RICCHEZZA DEL MOLISE NELLA DIETA MEDITERRANEA
il concerto della biodiversita’
di pasquale di lena
C’è un filo che lega i territori che scorrono lungo
l’Appennino e che, da una parte e dall’altra, scendono lo stivale per
raggiungere i rispettivi mari di un mare ancora più grande che è il
Mediterraneo, il nostro mare.
Il filo è quello dell’olio, con i suoi olivi e i piatti di
una cucina delle diversità grazie alla ricca biodiversità e alla storia, entrambe,
queste ultime, espresse dai territori che racchiudono questo mare di antiche e
moderne civiltà.
Uno stile di vita segnato fortemente dal territorio, che è
storia di civiltà, tratturi, scontri, unioni; cultura, tradizioni, strette di
mano, dialogo, ospitalità, amicizia, cura dell’arte e di quei paesaggi unici di
olivo e vite, orto e pescato, boschi di latifoglie; rispetto delle stagioni e
delle tradizioni e, come tale, ricco di tante minute variazioni dovute al
luogo, alle mani e alla fantasia delle donne, al tipo di conservazione dei
prodotti o dei piatti. Cioè, un insieme –
come recita la motivazione dell’Unesco del riconoscimento della Dieta
Mediterranea quale patrimonio dell’Umanità
– di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla
tavola passando attraverso i prodotti della terra e del mare” per finire –
come dico io - nelle nostre mani o nei nostri piatti e diventare così cibo,
alimento che, quando è sano, dà il piacere della salute.
Sta qui la ricchezza di una cucina, soprattutto nel Molise,
fatta da diversità di prodotti e di proposte, per lo più espressioni di
semplicità capaci di dare gusto alle emozioni di una tavola profumata, ricca di
voci oltre che di colori, che riporta al convivio quale luogo d’incontro con
gli altri e, come tale, centro e fonte di cultura.
Una cucina veloce, salvo che nei giorni di festa o da
ricordare, quando i preparativi erano lunghi anche giorni o settimane. Una
cucina, in pratica, che aveva tutti gli ingredienti a portata di mano. Grazie
all’orto, all’allevamento di animali di bassa corte; al ristretto mare; ai
piccoli, minuti centri abitati, immersi in una campagna che, per quanto
riguarda il Molise, dona un verde particolare, unico, speciale.
Parlo del Molise e, salvo alcune eccezioni o variazioni sul
tema, il riferimento è alle regioni del nostro meridione e al Mediterraneo,
culla dell’olivo e dell’olio, delle verdure, della frutta, dei cereali, del
pescato e degli animali che, prima ancora della carne, danno uova, pelli, lana.
Prendo come esempio di un’eccezione, il bergamotto, un
agrume sfruttato soprattutto per le sue essenze, che occupa un’area tutta
particolare della provincia di Reggio Calabria, o, anche, il pistacchio di
Bronte in Sicilia, o, ancora, il Caciocavallo silano che appartiene a tutto
l’Appennino meridionale.
Potrei continuare ma mi fermo per riflettere su una
leguminosa, la fava, che, come l’olio, è tutta mediterranea. Un legume diffuso dalla
notte dei tempi per la sua versatilità che, quando si unisce alle cicorie si presenta
come piatto delizioso, simbolo del “mare nostrum”, sia preparato nel Molise, con
le fave secche intere, che in Puglia, dove le fave diventano un purè.
Penso, certo, al brodetto o zuppa di pesce che varia da
luogo a luogo e che, ovunque, delizia il palato, ma, anche, alle alici fritte,
in tortiera o spinate e fatte cuocere su un letto di fette di patate o, anche,
marinate.
Penso alla “Scapece” di Vasto, il “liquanem” di cui parla
Apicio, che serviva a conservare la razza con l’aceto e lo zafferano in una
tinozza di legno che animava e ancora anima le fiere che si svolgono dalle
nostre parti; alla colatura delle alici a Cetara, borgo marinaro all’inizio
della Costiera amalfitana, o alle alici ben preparate e conservate dalle donne
di Pioppi, il piccolo borgo marinaro nel Comune di Pollica, patria eletta della
Dieta Mediterranea, per aver ospitato il suo cantore, Ancel Keys, e la moglie
Margaret.
E poi il forno con la
pizza “de rarature” l’ultima a farsi e la prima a mangiare posta com’era
davanti alla bocca del forno e, poi, le pizze (bianca all’olio o nelle ramere
se di pomodoro) che servivano per stemperare il mattone che doveva accogliere
l’impasto di farina, acqua e lievito, il pane, e, anche, per lasciare riposare
e asciugare il pane ancora caldo per qualche giorno, prima di essere tagliato e
mangiato.
Le pizze che, un tempo, lasciavano una scia di profumo lungo
le strette vie dei paesi, con le donne e noi bambini che le portavano a mano
dal forno a casa e tutto sembrava un ballo, una danza in onore più che della
fame, del gusto.
Ecco i grani, le farine, le paste, quelle lunghe come le
antiche lagane dei romani (laganelle per i molisani e tagliatelle per gli italiani), oppure
corte (sagnetèlle) perché meglio si
prestavano per piatti unici con verdure coltivate o spontanee, oppure con i legumi,
in particolare fagioli e ceci.
Le stesse polente che, con l’arrivo del mais, diventano
gialle o pizze di granone sotto la coppa con le verdure (foie) che danno “pizz’é foie”, un piatto oggi ricercato.
Tornano nella mente il basilico e il prezzemolo sui balconi,
le finestre o, anche, davanti alla porta delle piccole case dentro vasi
improvvisati; il timo, la maggiorana, il mazzetto di origano selvatico, le
trecce di aglio e cipolla, il profumo delle mele e dei meloni conservati per
l’inverno.
E, poi, la festa, la grande festa con il concerto finale
prima dei botti, la ciambotta o, come
si dice dalle mie parti, ciabbotta, che
mette insieme in un tegame, come su una decorata cassa armonica, musicisti
particolari per profumi e sapori come la cipolla, l’aglio, le melanzane, i
peperoni, le zucchine, le patate, il sedano e il basilico, cioè le bontà
dell’orto magistralmente dirette dall’olio di oliva che, come si sa, è quieto
per natura, o, meglio, ha nel silenzio la sua anima.
pasqualedilena@gmail.com
sarò lieto di postare sul blog le risposte che vorrai dare ai tanti interrogativi in modo da dare le informazioni giuste e correte ai lettori. grazie
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