PROGRAMMA SEE-PREGETTO AGRO-START
Il mio intervento alla presentazione progetto Campo-lieto
Territori, valori
delle aree interne
Il consumo dei territori più fertili procede a un ritmo non
più sostenibile per un mondo che reclama la sicurezza alimentare, ciò che porta
a dire che c’è una necessità urgente di intervenire per bloccare questo
processo che sembra inarrestabile. Personalmente sono convinto che questo è
possibile solo se al sistema in atto, ormai fallito, si sostituisce un altro
che affermi la sovranità alimentare.
Il consumo crescente e inarrestabile di tanti importanti
territori ha proceduto di pari passo con l’abbandono di altri territori, quelli
delle aree interne, o marginali al tipo di sviluppo, che, nel nostro Paese,
sono soprattutto quelli montani o, come quelli che affiancano l’Appennino, anche
collinari.
Nel primo caso, quello del consumo e dello spreco di
territorio, il risultato è un’enorme colata di cemento con i centri urbani che
si allargano a dismisura e, con la scelta del trasporto su gomma in un paese che
è circondato dal mare, lo sviluppo delle infrastrutture, in particolare
autostrade al posto di ferrovie, strade o autostrade del mare.
Nel secondo caso, quello dell’abbandono, i terreni non
producono e non sopportano più allevamenti animali, e, così, i territori, non
più presidiati dalla presenza costante dell’uomo, sono caratterizzati da
disastri ambientali, perdita di paesaggio, cioè ferite che hanno bisogno di
tempo per rimarginarsi.
Nell’uno e nell’altro caso il risultato è la perdita di cibo
e, nel momento in cui la perdita riguarda cibo di qualità, chi rischia è la
salute, che è un bene prezioso per ogni individuo e, non solo, per la società
degli individui che risparmia in cure e ospedali.
La crisi, sempre più pesante, che, anche per forti limiti di
governo della stessa, ha portato il Paese sull’orlo del precipizio e ci tiene
ancora lì con il fiato sospeso, ha messo in luce le contraddizioni e,
soprattutto, tutti i limiti di un sistema politico-economico basato sul
consumismo e spreco pauroso di risorse.
La terra, la nostra amata terra, non è più in grado di
rigenerare, come nel passato, queste risorse visto che sono stati superati i limiti
di sopportazione e il rischio, in molti casi, è quello del non ritorno.
Il risultato è che, una volta raggiunto e oltrepassato il
numero di sette miliardi di persone, ci sarebbe bisogno subito di un’altra metà
del globo e, se è vero, come dicono gli scienziati della materia, che nel 2050 la
popolazione mondiale supererà i nove miliardi di abitanti previsti, di globi
bisognerebbe averne già pronti due.
Nove miliardi e più di bocche da sfamare e, quindi, di cibo
da mettere a disposizione di uomini e donne, soprattutto bambini che già da
parecchio tempo, sono le prime vittime della fame, nel momento in cui non c’è
alcuna sicurezza alimentare.
La prospettiva del 2050 dovrebbe guidare le azioni di tutti
noi, in particolare di quelli che sono stati delegati, ai vari livelli, a
governare i processi di sviluppo e cogliere quella data come il marinaio che, con
la gioia e l’emozione di avercela fatta, raggiunge il porto dove poter
approdare la nave.
L’impressione è che ci troviamo di fronte a una classe
dirigente (non solo politica) che è portata a dimenticare il passato e a non
preoccuparsi del domani, concentrata com’è sull’oggi a vedere cosa e come
arraffare per sé e mai con il pensiero per il bene comune.
Una classe dirigente, quindi, sospesa tra il passato e il futuro
che non ha basi su cui realizzare i sogni e i progetti che fanno vedere il
domani. Essa, nel tempo, è diventata sempre più strumento della finanza e
totalmente ricattata dal profitto, un profitto per il profitto che ha come solo
significato quello di accumulare ricchezza, invece di metterla in circolazione,
con il fine di possedere e comandare senza preoccuparsi dei disastri e delle
vittime che accumula intorno a sé.
È la cruda realtà a tutti i livelli e, intanto, il tempo
passa rendendo sempre più difficile la progettazione del futuro che vorrebbe
dire, facendo tesoro del passato, che bisogna riportare al centro dello
sviluppo tutto quello che è stato con troppa facilità posto ai margini. Penso,
soprattutto, al territorio nella sua espressione più ampia di risorse e valori,
come la ruralità e la sua agricoltura, la storia e la cultura, le tradizioni,
l’ambiente e il paesaggio con la sua biodiversità, le tradizioni con le sue
feste e i suoi riti, la sua cucina.
Se questo discorso vale per la situazione in generale, c’è
da dire che ha ancora più significato per quella parte più maltrattata con
l’abbandono, cioè le aree interne, che vedono campagne e paesi spopolati immalinconiti
dalla loro solitudine.
Parlo di Campolieto e dei Campolieto situati tra il Fortore
e il Biferno, ma anche di quelli che scendono dal Matese e scivolano verso il
mare, tra il Biferno e il Trigno, che Isernia, Campobasso e Termoli hanno
spopolato con i nuclei industriali, gli uffici, le concentrazioni commerciali.
Parlo delle campagne di queste aree che la crisi pesante
dell’agricoltura – ricordo che essa è arrivata come una mazzata quattro anni
prima (2004) quella pesante e più generale –ha posto ai margini dello sviluppo,
con le scelte imposte dalle multinazionali. In primo luogo quella di
un’agricoltura sempre più intensiva, anzi superintensiva, al servizio di chi,
in mancanza di una programmazione, l’ha maltrattata e continua a farlo con le
pale eoliche, i pannelli solari a terra o la produzione di bioenergie. Un vasto
campo, aperto a nuove imprese che, spuntate come funghi, producono ingenti
profitti a scapito dei territori e dei protagonisti primi di questi territori,
i coltivatori, cioè i produttori di cibo.
Il loro potere è proprio quello delle multinazionali, così
forte che non solo riescono a condizionare le scelte dei governi ma, attraverso
l’informazione, a convincerci tutti della bontà di certi ragionamenti e date
scelte. Penso, solo per fare un esempio, al ritornello dei limiti della nostra
agricoltura tutti dovuti, non al suo abbandono culturale e politico, ma al
fatto che le nostre aziende sono troppo piccole perché possano riuscire a
competere con il mercato. E, così, i coltivatori che hanno fatto per una vita,
e da generazioni, i coltivatori si convincono, anche perché c’è l’età e i figli
sono andati via, che è meglio lasciare giacché l’agricoltura non rende più.
La terra serve alle multinazionali per i loro megaprogetti e
non vogliono ostacoli per averla. Ce n’è uno che interessa anche il Molise e
questo grazie alle iniziative dei parlamentari molisani e al consenso
dell’attuale governo regionale: la stalla “Granmanze” della Granarolo, così
grande da ospitare 12.000 manze da allevare qui da noi fino a quando non devono
partorire e dare latte. In quel momento devono tornare alla Granarolo e
produrre lì il latte che serve a questo vecchio consorzio di cooperative che,
una volta S.p.a, ragiona da multinazionale. Una stalla che si pensa di
realizzare nel basso Molise, estesa per 100 ettari, come dire 1/25 di tutta la
superficie del territorio di Campolieto!
Una ferita enorme, tutta di cemento, che rischia di
stravolgere l’intero assetto dell’agricoltura molisana se il progetto
“Granmanze” sarà realizzato. Si ripeterà l’effetto degli ipermercati che hanno
divorato i piccoli negozi; messo da parte famiglie che li gestivano in cambio
di pochi posti di lavoro; impoverito i coltivatori, nel momento in cui il
prezzo lo decide la grande distribuzione, e appesantito il bilancio delle
famiglie con lo spreco di molta parte della merce acquistata.
Il Molise ha bisogno del suo territorio e della sua agricoltura
se vuole pensare e programmare il domani e, in questo senso, ha bisogno
soprattutto delle aree interne con i suoi valori e le sue risorse che sono di
grande attualità, sapendo che il globale ha mostrato tutti i suoi limiti e si
sente forte il bisogno del glocale.
C’è bisogno di cibo, ma sempre più di cibo di qualità; occupazione,
certo per i giovani che non conoscono il lavoro ma anche per chi il lavoro lo
conosce e l’ha perso; società, con le persone protagoniste e non semplici numeri,
come i padroni del mondo vorrebbero, da mettere insieme a proprio piacimento; tempo,
per riappropriarsi di questo straordinario valore e, così, capire i processi, le
stagioni, i rapporti tra gli individui e tra gli individui e la natura,e, così,
le attese, i sogni del domani. E ancora, c’è bisogno della sostenibilità, cioè della
cura dell’ambiente e del paesaggio, delle coltivazioni che il territorio e non
la multinazionale ha selezionato; dei semi che i coltivatori hanno ereditato e
conservato dando forza e sostanza alla biodiversità; del dialogo, del confronto
e della partecipazione per dare forza al senso di comunità e sviluppo alla
democrazia; della solidarietà e reciprocità per fare dell’unione la forza.
Campo-lieto con le sue associazioni e i suoi protagonisti, è
questo e può diventare un valido esempio per altre realtà che, partendo dalle
proprie risorse e dalla capacità di saperle riprodurre ancor prima che
sfruttarle, hanno la certezza, la sola, per superare la crisi e dare significato
a un nuovo percorso che ha importanti traguardi da raggiungere e superare per
conquistare il domani.
Pasquale Di Lena
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