LA FESTA DI S. GIUSEPPE
Quest’anno l’associazione culturale l’Ecomuseo Itinerari Frentani, presieduta e animata dal prof. Marcello Pastorini, ha messo in atto, nelle giornate del 18 e 19 marzo, un programma di partecipazione ai riti di S. Giuseppe che si sono svolti a Larino e nei paesi limitrofi di Guardialfiera, Montrorio nei Frentani, S. Croce di Magliano, Casacalenda e S. Martino in Pensilis.
L’Associazione, con i suoi cantori della memoria, ha visitato cappelle, tavolate e falò realizzati in tali località per la festività di S. Giuseppe, proponendo canti sacri nonché letture di brani letterari di Francesco Jovine e poesie in vernacolo di Giovanni Cerri e Raffaele Capriglione, due poeti locali del secolo scorso.
Scrive Francesco Jovine nel suo Viaggio nel Molise: “ Per S. Giuseppe, con le prime viole, il paese (Guardialfiera) inaugura la serie delle agapi fraterne. C’è in questa usanza qualche cosa di arcaico o addirittura primordiale, ma di un significato umano così profondo che mi pare degno di essere notato…”; e Cerri nella poesia I tavele de San Geseppe: Se dente Marze vie ‘n quistu pajese,/ ze fa na feste che ‘n z’è viste maje;/ tu vive , miegne e puo’ te ne revaje/ a nu pajese tie senza pagà/(1).
Il poeta Capriglione, dal canto suo, nella poesia dedicata ai falò di S. Giuseppe, ossia ai marauasce, dice: quanne è restrette a folle p’ogne luoche,/ siente e lluccà i guagliune e una voce:/ ppicciate u marauasce, fuoche , fuoche/(2).
In tutti i paesi c’è la tradizione di cappelle e tavolate, tranne che a S. Croce. Infatti qui c’è esclusivamente quella dei marauasce, cantati da Capriglione nell’omonima poesia, ed è una tradizione questa che non è presente in nessuno degli altri comuni.
A Larino, quattro le cappelle allestite quest’anno, tutte nel centro storico, e, come al solito, in piccoli ambienti direttamente aperti alla strada. Nulla di eccezionale: un semplice altarino realizzato alla bell’e meglio, addobbato con tovaglie di lino bianco, lumini, in qualche caso fiori, e con un quadro che riproduce la figura del santo a troneggiare sulla sua sommità; in un angolo, cibi devozionali da offrire in dono ai visitatori.
I Cantori della memoria vi hanno portato le loro esibizioni, tra le diciannove e trenta e le venti e trenta del giorno 18, proprio nell’ora di massima presenza di visitatori. Ovunque accolti con piena soddisfazione. Nel momento dell’esibizione, tutti fermi ad ascoltare, poi la distribuzione dei cibi devozionali che riprendeva, ed ognuno se ne usciva fuori stringendo tra le mani una scarpella (morbido bastoncino di pasta fritta) oppure un piatto con maccheroni alla mollica (“ i maccarune de San Geseppe”, vivanda d’obbligo, questa, su tutte le tavole dell’indomani), o con la pezzente, una profumatissima zuppa di legumi ( ceci, cicerchie, fagioli, fave e lenticchie, conditi con olio aglio e alloro), mentre altri visitatori si accalcavano per entrare.
Nella piacevole serata, appena increspata da qualche residuo alito della stagione ormai conclusa, il cuore del centro storico era animato di vita: in piazza Duomo, nell’attigua piazza Roma e lungo la classica via Cluenzio che si diparte da quest’ultima infilandosi tra le case con le pieghe di una coda felina, era tutto un via vai di persone che facevano il giro delle cappelle.
Il movimento si è prolungato fino ad una certa ora, poi, quando i visitatori erano ormai rincasati e le vie divenute già tutte deserte, le donne che avevano contribuito alla realizzazione della cappella, di solito legate tra loro da relazioni di vicinato o di amicizia, dopo aver rassettato, in omaggio alla tradizione della veglia si sono intrattenute a sgranare poste di rosario fino alla vittoria del sonno.
Un tempo, quando le cappelle erano assai più numerose, il flusso dei visitatori era molto più intenso e il cibo che veniva ad essi offerto in dono, aveva generalmente non solo il carattere di simbolo devozionale ma anche quello più materiale di supplemento straordinario, almeno per quel giorno, al magro pasto giornaliero. Un lusso, insomma.
Ed era il dono di chi possedeva a chi non possedeva e l’atto rappresentava un’occasione per preservare e rinsaldare, in uno spirito di sacralità e di soddisfacimento di un bisogno primario, i legami che univano in un tutt’uno i membri della comunità.
A quel tempo la veglia nelle cappelle era utilizzata per la preparazione dei cibi della tavolata di S. Giuseppe. La famiglia che allestiva la cappella, infatti, il giorno successivo, ossia quello della ricorrenza festiva, faceva la tavolata. Ora non più. Quest’anno, a Larino, della quattro famiglie che hanno allestito la cappella, solo una ha mantenuto in vita anche il rito della tavolata.
La pratica di questi riti si va estinguendo e quel che rimane lo si deve ad una residua, ma tenace volontà di non spezzare il legami col passato.
La tavolata prevede tredici convitati e tredici portate. Il tredici richiama il numero dei partecipanti all’ultima cena. Tutti esterni alla famiglia ospite, i convitati, e tra essi in primo piano: una donna anziana, un uomo altrettanto anziano e un bambino a simboleggiare la sacra famiglia.
L’Associazione, con i suoi cantori della memoria, ha visitato cappelle, tavolate e falò realizzati in tali località per la festività di S. Giuseppe, proponendo canti sacri nonché letture di brani letterari di Francesco Jovine e poesie in vernacolo di Giovanni Cerri e Raffaele Capriglione, due poeti locali del secolo scorso.
Scrive Francesco Jovine nel suo Viaggio nel Molise: “ Per S. Giuseppe, con le prime viole, il paese (Guardialfiera) inaugura la serie delle agapi fraterne. C’è in questa usanza qualche cosa di arcaico o addirittura primordiale, ma di un significato umano così profondo che mi pare degno di essere notato…”; e Cerri nella poesia I tavele de San Geseppe: Se dente Marze vie ‘n quistu pajese,/ ze fa na feste che ‘n z’è viste maje;/ tu vive , miegne e puo’ te ne revaje/ a nu pajese tie senza pagà/(1).
Il poeta Capriglione, dal canto suo, nella poesia dedicata ai falò di S. Giuseppe, ossia ai marauasce, dice: quanne è restrette a folle p’ogne luoche,/ siente e lluccà i guagliune e una voce:/ ppicciate u marauasce, fuoche , fuoche/(2).
In tutti i paesi c’è la tradizione di cappelle e tavolate, tranne che a S. Croce. Infatti qui c’è esclusivamente quella dei marauasce, cantati da Capriglione nell’omonima poesia, ed è una tradizione questa che non è presente in nessuno degli altri comuni.
A Larino, quattro le cappelle allestite quest’anno, tutte nel centro storico, e, come al solito, in piccoli ambienti direttamente aperti alla strada. Nulla di eccezionale: un semplice altarino realizzato alla bell’e meglio, addobbato con tovaglie di lino bianco, lumini, in qualche caso fiori, e con un quadro che riproduce la figura del santo a troneggiare sulla sua sommità; in un angolo, cibi devozionali da offrire in dono ai visitatori.
I Cantori della memoria vi hanno portato le loro esibizioni, tra le diciannove e trenta e le venti e trenta del giorno 18, proprio nell’ora di massima presenza di visitatori. Ovunque accolti con piena soddisfazione. Nel momento dell’esibizione, tutti fermi ad ascoltare, poi la distribuzione dei cibi devozionali che riprendeva, ed ognuno se ne usciva fuori stringendo tra le mani una scarpella (morbido bastoncino di pasta fritta) oppure un piatto con maccheroni alla mollica (“ i maccarune de San Geseppe”, vivanda d’obbligo, questa, su tutte le tavole dell’indomani), o con la pezzente, una profumatissima zuppa di legumi ( ceci, cicerchie, fagioli, fave e lenticchie, conditi con olio aglio e alloro), mentre altri visitatori si accalcavano per entrare.
Nella piacevole serata, appena increspata da qualche residuo alito della stagione ormai conclusa, il cuore del centro storico era animato di vita: in piazza Duomo, nell’attigua piazza Roma e lungo la classica via Cluenzio che si diparte da quest’ultima infilandosi tra le case con le pieghe di una coda felina, era tutto un via vai di persone che facevano il giro delle cappelle.
Il movimento si è prolungato fino ad una certa ora, poi, quando i visitatori erano ormai rincasati e le vie divenute già tutte deserte, le donne che avevano contribuito alla realizzazione della cappella, di solito legate tra loro da relazioni di vicinato o di amicizia, dopo aver rassettato, in omaggio alla tradizione della veglia si sono intrattenute a sgranare poste di rosario fino alla vittoria del sonno.
Un tempo, quando le cappelle erano assai più numerose, il flusso dei visitatori era molto più intenso e il cibo che veniva ad essi offerto in dono, aveva generalmente non solo il carattere di simbolo devozionale ma anche quello più materiale di supplemento straordinario, almeno per quel giorno, al magro pasto giornaliero. Un lusso, insomma.
Ed era il dono di chi possedeva a chi non possedeva e l’atto rappresentava un’occasione per preservare e rinsaldare, in uno spirito di sacralità e di soddisfacimento di un bisogno primario, i legami che univano in un tutt’uno i membri della comunità.
A quel tempo la veglia nelle cappelle era utilizzata per la preparazione dei cibi della tavolata di S. Giuseppe. La famiglia che allestiva la cappella, infatti, il giorno successivo, ossia quello della ricorrenza festiva, faceva la tavolata. Ora non più. Quest’anno, a Larino, della quattro famiglie che hanno allestito la cappella, solo una ha mantenuto in vita anche il rito della tavolata.
La pratica di questi riti si va estinguendo e quel che rimane lo si deve ad una residua, ma tenace volontà di non spezzare il legami col passato.
La tavolata prevede tredici convitati e tredici portate. Il tredici richiama il numero dei partecipanti all’ultima cena. Tutti esterni alla famiglia ospite, i convitati, e tra essi in primo piano: una donna anziana, un uomo altrettanto anziano e un bambino a simboleggiare la sacra famiglia.
Lo spirito col quale l’Ecomuseo ha promosso la propria iniziativa è quello di valorizzare tali manifestazioni per rafforzarne la vitalità e quindi favorirne la conservazione. Lodevole! perché mantenere in vita queste tracce del passato è opera meritoria. Lo è, però, nella misura in cui non ci si abbandoni a tentazioni di natura nostalgica ed io sono certo che L’Ecomuseo ne è immune.
In tale ottica, infatti, la preservazione del legame con il passato non solo aiuta a cogliere in maniera più pertinente le condizioni di vita dei tempi passati nella loro dimensione materiale e antropologico culturale, ma aiuta anche a misurare le distanze che ci separano da quei tempi e quindi, per raffronto, ad una comprensione più penetrante del tempo presente.
Per esempio le Cappelle di S. Giuseppe possono suggerirci il valore della solidarietà verso gli altri come pratica individuale o di gruppo, valore che oggi andrebbe recuperato e sostenuto in un contesto connotato strutturalmente da una separazione e isolamento degli individui che spinge ciascuno ad atteggiamenti di egoismo sociale; ma oggi questo tipo di solidarietà, a differenza di quanto accedeva nel passato, non basta a oliare il sistema sociale, infatti il sistema sociale di oggi ha bisogno di nuovi valori che possiamo individuare in una solidarietà che si fa progetto politico, nella trasparenza nelle relazioni, nella legalità, nella giustizia sociale, nella formazione della libera opinione e così via.
Nel Molise le condizioni oggettive non sono purtroppo favorevoli al prosperare di tali valori, e per questo il lavoro da fare qui per dischiudere prospettive di un futuro accettabile, è immane. L’attività dell’Ecomuseo si muove nella giusta direzione, ed esempi del genere andrebbero incoraggiati e decuplicati, decuplicati e decuplicati. In mancanza, il processo di decadenza del nostro sistema regione porterà inevitabilmente all’abolizione della sua entità istituzionale.
In tale ottica, infatti, la preservazione del legame con il passato non solo aiuta a cogliere in maniera più pertinente le condizioni di vita dei tempi passati nella loro dimensione materiale e antropologico culturale, ma aiuta anche a misurare le distanze che ci separano da quei tempi e quindi, per raffronto, ad una comprensione più penetrante del tempo presente.
Per esempio le Cappelle di S. Giuseppe possono suggerirci il valore della solidarietà verso gli altri come pratica individuale o di gruppo, valore che oggi andrebbe recuperato e sostenuto in un contesto connotato strutturalmente da una separazione e isolamento degli individui che spinge ciascuno ad atteggiamenti di egoismo sociale; ma oggi questo tipo di solidarietà, a differenza di quanto accedeva nel passato, non basta a oliare il sistema sociale, infatti il sistema sociale di oggi ha bisogno di nuovi valori che possiamo individuare in una solidarietà che si fa progetto politico, nella trasparenza nelle relazioni, nella legalità, nella giustizia sociale, nella formazione della libera opinione e così via.
Nel Molise le condizioni oggettive non sono purtroppo favorevoli al prosperare di tali valori, e per questo il lavoro da fare qui per dischiudere prospettive di un futuro accettabile, è immane. L’attività dell’Ecomuseo si muove nella giusta direzione, ed esempi del genere andrebbero incoraggiati e decuplicati, decuplicati e decuplicati. In mancanza, il processo di decadenza del nostro sistema regione porterà inevitabilmente all’abolizione della sua entità istituzionale.
(1) Se entro marzo vieni in questo paese,/si fa una festa che non s’è vista mai/tu bevi, mangi e poi te ne rivai/ al tuo paese senza pagare/
(2) Quando la folla si è raccolta in ogni luogo,/ senti i ragazzi gridare ad una voce:/accendete i falò (marauasce), fuoco, fuoco.
Approfittiamo di questo bell'articolo di Nicolino Civitella per inserire una nostra poesia del 1997 scritta alla fine di agosto a Pizzo Calabro.
U JUORNE DE SAN GESÈPPE
U juorne de San Gesèppe,
i decennove de marze,
me recòrde tre cóse:
u prime gelate
i cavezune curte
a tavelate.
U gelate
nu ciancianielle cuelerate
cu sapòre du lemone
creme e ceccuelate.
U gelate
na sensaziòne de èsse èguale
‘n quill'u periede de mesèrie,
de fame.
A primavére èrrevate.
U gelate
nu cuoppe de sespire
na cheméte
na voje de scappà
une duie,ciente leccate.
U gelate
che buone che è u gelate,
na magnata saprite
però n'eccòne jelate.
I cavezune curte
dòpe a vernate mes’travene
duie còsse ghianche e rosce
pu fridde che facève èncòre
pure se ce s’tève u sòle.
Èppène misse me breuegnave
dope no, nge pensave,
ma chi ngia facève i pertave a la zuave:
né luonghe né curte
èppène sotte i denuocchie
e pe nu palme e na mane
duie cavezettune de lane.
I cavezune curte
deràvene fine a fiere de ottobre
cuelle de tutte l'anemale
cuanne pu fridde ce velève a lane.
A tavele de San Gesèppe
na grossa deveziòne
che facève rapì i porte di case
e tutt'a pepelaziòne.
Cuase sèmpe na s’tanze
che na cemmeniere peccenénne
chi pegnate èzzeccate
cóm'e tanta feceliere.
Fasciuole, cice.cecèrchie e fave,
u piatte da pezzènte,
che e tutte venève date
ma èpprime e i povera ggènte.
Dént'e nu spiguele
a mos’tre de tutt'a grazie de Diie
èpparecchiate
pe farle vedé pur'e miezz'a viie.
Dapù na gròssa tavelate
pe tridece pertate
che Gesèppe, Marie e u Bambenielle
èmmiezze
e che l'Apos'tele
de na parte e n'ate.
(Pizzo Calabro, 24.8.97)
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