Leggendo qua e là: questa volta la notizia arriva dal Nepal.
Noi venti siamo ancora più convinti che un seme di grano o di finocchio, mais o avena, senape o colza è di ognuno di noi, perché un bene comune che, nei secoli passati, nessuno si è mai permesso di toccare fino a quando, fine del secolo scorso, la politica, con il permesso alla brevettabilità dei semi, non si è messa al servizio della finanza e delle multinazionali e, con essa, i governi e, purtroppo, con la scusa che la scienza non può essere fermata, anche un numero di illustri scienziati.
Un processo che ha riguardato prima continenti lontani (ritenuti campi sperimentali più facili da gestire), producendo asservimento dei governi locali e nuova povertà, per poi arrivare anche in Europa e da noi.
La notizia che ci arriva dal Nepal ci fa tirare un respiro di sollievo (per noi venti è solo un modo di dire) con l’iniziativa della società civile nepalese che si oppone "all'attuazione di un progetto di partnership, annunciato ufficialmente il 13 settembre 2011, tra US Agency for international development (Usaid), la multinazionale Monsanto e il governo del Nepal, che punta a incrementare la produzione di mais utilizzando sementi ibride importate”.
Una notizia importante, soprattutto perché viene da un paese dove il mais è parte fondamentale della dieta di questo popolo che registra anche la sofferenza per la sotto-alimentazione.
Evidentemente il nepalese sa bene che non si vive di solo pane, anzi mais, e per questo è riconosciuto da tutti di far parte di un popolo fiero.
Infatti, quando sono venuti a sapere, hanno subito detto alla società americana che si occupa di sviluppo (!), la USaid, “ma perché, visto che vuoi collaborare con la Monsanto, non ci aiuti a sviluppare le nostre sementi, invece di colonizzarci con quelle della Monsanto?”, che - lo diciamo noi - di santo non ha niente, affamata com’è di potere e di denaro, e, quindi, senza neanche uno scrupolo. Questo lo sanno anche tanti nostri illustri professori che continuano a predicare la sacralità della ricerca che, in pratica vuol dire, dare spazio alla Monsanto o a realtà come la Monsanto che, con la scusa di sfamare i popoli e assicurare la sicurezza alimentare, li affama ma non senza, però, aver prima proceduto all’annientamento delle risorse proprie e dei valori che essi si sono costruiti nel tempo.
In pratica - ci hanno fatto sapere quanti si oppongono - che questo progetto equivarrebbe "A rimpiazzare la dipendenza attuale dalle importazioni di mais con una dipendenza di fronte alle sementi straniere, anche perché – aggiungono – quelle della Monsanto sono utilizzate per fornire l'industria dell'alimentazione animale e non per sfamare la popolazione”.
C’è di più, i bravi agricoltori nepalesi, che conoscono la Monsanto molto bene tanto da definirla "Golia delle biotecnologie", vogliono decidere loro a chi vendere il mais.
Un senso di autonomia e libertà che è parte di questa gente semplice ma ricca di valori. In pratica non vogliono dipendere dalle importazioni di sementi e, conoscendo la Monsanto e i guai che ha già provocato, non vogliono avere a che fare con chi ha dimostrato che è meglio non averci a che fare.
Anche una consapevolezza che dovrebbe far parte, prima che sia troppo tardi, della cultura dei nostri agricoltori, e cioè, non è vero che producendo di più si ha più reddito e si sta meglio. La realtà della crisi dell’agricoltura e i guai che non fanno dormire, ormai da qualche tempo, sonni tranquilli ai nostri produttori, ci fanno credere che non ancora lo sanno, anche perché nessuno glielo ha mai detto per la semplice ragione che non si vuole rischiare la chiusura dei consorzi agrari.
A voreie
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