LE DONNE DI ALLORA

LE DONNE DI ALLORA


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di Nicola Picchione

Tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.
Da Antologia di Spoon River

Se potessi erigere un monumento in piazza, lo dedicherei alle donne del passato di Bonefro: le nonne e le madri dei più anziani di oggi. Raffigurerei una donna piccola col capo coperto dal fazzoletto legato alla nuca, la camicetta scura, la gonna lunga e ampia coperta da un zinale scuro, in testa una grossa, pesante cesta sospesa sulla “spar’n” e in braccio un bambino.
 
La raffigurerei umile, col volto sereno rassegnato alla sofferenza. Le donne della povertà si somigliano tutte nel mondo, cambiano solo il dialetto e il colore della pelle.
 
Sarebbe un monumento a tutte le donne di tutti i Sud del mondo sulle cui spalle solo apparentemente deboli pesavano spesso gran parte dei matrimoni, i figli, le famiglie. Le donne dei Sud del mondo si somigliano: sembrano fragili ma sono forti, sembrano rassegnate ma sono decise; sembrano ignoranti ma sanno governare la famiglia.
Non erano diverse dalle altre donne le nostre nonne non erano sante né tutte e sempre virtuose. Avevano, credo, i pensieri e i desideri di tutte le donne del mondo, la voglia di intrigarsi delle cose degli altri, le debolezze e i peccati che l’umanità si porta addosso. Se tu fossi andato a sentirle al forno mentre cuoceva il pane avresti sentito tanti pettegolezzi; e se le avessi viste in fila alla fontana con la tina di rame in mano avresti anche potuto assistere a liti.

La sorte aveva affidato loro compiti pesanti ai quali si abituavano sin da ragazze. Già prima dei dieci anni imparavano a lavare, a fare il pane dritte su uno sgabello per arrivare alla vasca della madia, ad accudire a un fratellino. Dovevano aiutare gli uomini nei campi ma anche mandare avanti la casa, fare e allevare figli spesso numerosi che partorivano in casa e qualche volta nel campo in un pagliaio. Dovevano far quadrare i miseri bilanci nei quali ogni lira aveva valore. Dovevano ubbidire ai mariti e spesso ai suoceri se conviventi.
 
Erano le custodi della pace di casa, a costo di bugie per nascondere le colpe dei figli e di vendere di nascosto qualche uovo per piccole spese che il marito non avrebbe approvato. Quando tornavano dai campi la loro fatica non era finita. Preparare la cucina, senza gas senza pasta confezionata che era un lusso riservato- ma non per tutti- ai giorni di festa. Dovevano pensare ai bisogni delle galline e del maiale mentre l’uomo governava l’asino o il mulo. Dovevano comprare meno cose possibili, il sale lo zucchero. Non il caffè che veniva preparato, senza macchinetta, solo per portarlo col termos come “riconsolo” a chi aveva avuto una morte in famiglia. Con la “posa” si preparava il caffè per casa.

La donna rimaneva a casa quando doveva fare il pane ma prima doveva cernere la farina che aveva riportato dal mulino, prendere accordi col fornaio. Rimaneva in casa quando doveva fare il bucato al ruscello. Doveva saper lavorare d’ago, rattoppare calze, pantaloni, giacche. Le più brave facevano camicie e calze. Le donne di Bonefro erano famose nei dintorni per le loro capacità, per come riuscivano a risparmiare e a tenere la “rima della casa”, termine in disuso ma che indicava ordine pulizia essenzialità.
 
Molti anni fa un vecchio di S. Giuliano mi disse che mentre non avrebbe mai fatto sposare una figlia con un bonefrano (li riteneva, credo esagerando, rudi a volte violenti e avari) volentieri avrebbe fatto sposare un figlio a una donna di Bonefro. Molte virtù nascevano dalla necessità. Imparavano da piccole a ubbidire, lavorare, sopportare anche le violenze. Portavano segnato il loro destino sin dalla nascita. Avere una figlia non era gradito. Era considerato un peso. Non tramandava il proprio nome, non faceva il lavoro considerato remunerativo, richiedeva una dote. Un amico di famiglia non volle andare al matrimonio dei miei perché gli era nata il giorno prima una femmina: quasi un lutto, anche se poi fu quella figlia ad accudirlo nella vecchiaia e non il maschio che nacque dopo.
Imparavano presto a fronteggiare la vita, a mandare avanti la casa. Molto presto dovevano mettere da parte la piccola bambola di pezza ( a pupiatt’). Le loro mamme erano analfabete; molte di loro non finivano le elementari. Molte imparavano a ricamare per preparare il corredo. Dovevano uscire di casa il meno possibile e spiare dietro i vetri delle finestre se passava l’innamorato. Qualcuna, mi diceva, gettava l’acqua della tina solo per tornare alla fontana.
 
Sapevano sopportare, le donne di Bonefro. Era questa la virtù che salvava molti matrimoni. Sopportavano se il marito si ubriacava, tolleravano i comandi. Anche da adulte, a molte il comando del marito arrivava con lo sprezzante epiteto: “Guegliò” come fosse ancora una ragazza da sottomettere. Alcune erano anche rassegnate alle percosse che subivano in silenzio.
 
Mi raccontava recentemente un’ amica ormai anziana che un giorno trovò la suocera col volto tumefatto ed ecchimotico (“rann’rit”). Le raccontò di una inverosimile caduta ma poi dovette ammettere che la sera prima era stata colta dal sonno per la stanchezza e non aveva sentito bussare il marito che rientrava tardi dalla “cantina”. Fu punita con pugni e calci. Si raccomandò di non dire nulla ai figli, per la pace di casa.
 
Mi raccontava un vecchio amico- di quelli che incontro in piazza quando torno e con i quali parlo con piacere- di un suo vicino. Un giorno aveva preceduto in campagna la moglie che aveva da fare a casa, ordinandole di portargli un pacchetto di tabacco. La moglie, finiti i lavori a casa, si avviò verso il campo distante, a Gerione, con una cesta piena in testa. Arrivò già stanca. Il marito da lontano le urlò di affrettare il passo, aveva gran voglia di fumare. Solo allora la donna si ricordò del tabacco. “Non fare un solo passo- le ordinò il marito- posa la cesta e torna immediatamente a comprarmi il tabacco”.
COME ERAVAMO Prenditi una pausa di tre minuti e leggi un altro racconto del dr Nicola Picchione, piano piano ti sembrera’ di vedere un film, avvertirai quasi  i rumori, alla fine ti sembrera’ di aver vissuto in quel periodo.  Foto: Nonna Flora di Nicola Lalli Zia Maria Libera e zia Paolina di Nicola Picchione    LE DONNE DI ALLORA  Tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. Da Antologia di Spoon River  Se potessi erigere un monumento in piazza, lo dedicherei alle donne del passato di Bonefro: le nonne e le madri dei più anziani di oggi. Raffigurerei una donna piccola col capo coperto dal fazzoletto legato alla nuca, la camicetta scura, la gonna lunga e ampia coperta da un zinale scuro, in testa una grossa, pesante cesta sospesa sulla “spar’n” e in braccio un bambino. La raffigurerei umile, col volto sereno rassegnato alla sofferenza. Le donne della povertà si somigliano tutte nel mondo, cambiano solo il dialetto e il colore della pelle. Sarebbe un monumento a tutte le donne di tutti i Sud del mondo sulle cui spalle solo apparentemente deboli pesavano spesso gran parte dei matrimoni, i figli, le famiglie. Le donne dei Sud del mondo si somigliano: sembrano fragili ma sono forti, sembrano rassegnate ma sono decise; sembrano ignoranti ma sanno governare la famiglia. Non erano diverse dalle altre donne le nostre nonne non erano sante né tutte e sempre virtuose. Avevano, credo, i pensieri e i desideri di tutte le donne del mondo, la voglia di intrigarsi delle cose degli altri, le debolezze e i peccati che l’umanità si porta addosso. Se tu fossi andato a sentirle al forno mentre cuoceva il pane avresti sentito tanti pettegolezzi; e se le avessi viste in fila alla fontana con la tina di rame in mano avresti anche potuto assistere a liti.  La sorte aveva affidato loro compiti pesanti ai quali si abituavano sin da ragazze. Già prima dei dieci anni imparavano a lavare, a fare il pane dritte su uno sgabello per arrivare alla vasca della madia, ad accudire a un fratellino. Dovevano aiutare gli uomini nei campi ma anche mandare avanti la casa, fare e allevare figli spesso numerosi che partorivano in casa e qualche volta nel campo in un pagliaio. Dovevano far quadrare i miseri bilanci nei quali ogni lira aveva valore. Dovevano ubbidire ai mariti e spesso ai suoceri se conviventi. Erano le custodi della pace di casa, a costo di bugie per nascondere le colpe dei figli e di vendere di nascosto qualche uovo per piccole spese che il marito non avrebbe approvato. Quando tornavano dai campi la loro fatica non era finita. Preparare la cucina, senza gas senza pasta confezionata che era un lusso riservato- ma non per tutti- ai giorni di festa. Dovevano pensare ai bisogni delle galline e del maiale mentre l’uomo governava l’asino o il mulo. Dovevano comprare meno cose possibili, il sale lo zucchero. Non il caffè che veniva preparato, senza macchinetta, solo per portarlo col termos come “riconsolo” a chi aveva avuto una morte in famiglia. Con la “posa” si preparava il caffè per casa. La donna rimaneva a casa quando doveva fare il pane ma prima doveva cernere la farina che aveva riportato dal mulino, prendere accordi col fornaio. Rimaneva in casa quando doveva fare il bucato al ruscello. Doveva saper lavorare d’ago, rattoppare calze, pantaloni, giacche. Le più brave facevano camicie e calze. Le donne di Bonefro erano famose nei dintorni per le loro capacità, per come riuscivano a risparmiare e a tenere la “rima della casa”, termine in disuso ma che indicava ordine pulizia essenzialità. Molti anni fa un vecchio di S. Giuliano mi disse che mentre non avrebbe mai fatto sposare una figlia con un bonefrano (li riteneva, credo esagerando, rudi a volte violenti e avari) volentieri avrebbe fatto sposare un figlio a una donna di Bonefro. Molte virtù nascevano dalla necessità. Imparavano da piccole a ubbidire, lavorare, sopportare anche le violenze. Portavano segnato il loro destino sin dalla nascita. Avere una figlia non era gradito. Era considerato un peso. Non tramandava il proprio nome, non faceva il lavoro considerato remunerativo, richiedeva una dote. Un amico di famiglia non volle andare al matrimonio dei miei perché gli era nata il giorno prima una femmina: quasi un lutto, anche se poi fu quella figlia ad accudirlo nella vecchiaia e non il maschio che nacque dopo. Imparavano presto a fronteggiare la vita, a mandare avanti la casa. Molto presto dovevano mettere da parte la piccola bambola di pezza ( a pupiatt’). Le loro mamme erano analfabete; molte di loro non finivano le elementari. Molte imparavano a ricamare per preparare il corredo. Dovevano uscire di casa il meno possibile e spiare dietro i vetri delle finestre se passava l’innamorato. Qualcuna, mi diceva, gettava l’acqua della tina solo per tornare alla fontana. Sapevano sopportare, le donne di Bonefro. Era questa la virtù che salvava molti matrimoni. Sopportavano se il marito si ubriacava, tolleravano i comandi. Anche da adulte, a molte il comando del marito arrivava con lo sprezzante epiteto: “Guegliò” come fosse ancora una ragazza da sottomettere. Alcune erano anche rassegnate alle percosse che subivano in silenzio. Mi raccontava recentemente un’ amica ormai anziana che un giorno trovò la suocera col volto tumefatto ed ecchimotico (“rann’rit”). Le raccontò di una inverosimile caduta ma poi dovette ammettere che la sera prima era stata colta dal sonno per la stanchezza e non aveva sentito bussare il marito che rientrava tardi dalla “cantina”. Fu punita con pugni e calci. Si raccomandò di non dire nulla ai figli, per la pace di casa. Mi raccontava un vecchio amico- di quelli che incontro in piazza quando torno e con i quali parlo con piacere- di un suo vicino. Un giorno aveva preceduto in campagna la moglie che aveva da fare a casa, ordinandole di portargli un pacchetto di tabacco. La moglie, finiti i lavori a casa, si avviò verso il campo distante, a Gerione, con una cesta piena in testa. Arrivò già stanca. Il marito da lontano le urlò di affrettare il passo, aveva gran voglia di fumare. Solo allora la donna si ricordò del tabacco. “Non fare un solo passo- le ordinò il marito- posa la cesta e torna immediatamente a comprarmi il tabacco”. Sopportavano, lavoravano persuase che fosse la regola di vita, un destino inevitabile soprattutto se si nasceva povere. Si sposavano molto giovani, quasi sempre la mattina presto. Lo sposo nemmeno lo conoscevano bene. Quando da fidanzato andava a far visita alla famiglia di lei si dovevano sedere lontano l’uno dall’altro. Non si dovevano toccare e nemmeno parlarsi direttamente. Spesso dovevano accettare un uomo senza amarlo. Di una sola si raccontava che arrivata davanti all’altare, alla domanda del prete se voleva sposare quell’uomo ebbe il coraggio di dire di no e alla domanda del prete sul perché fosse arrivata all’altare, rispose: “Mi ci hanno portato”. Era un’eccezione. Non so come sia andata a finire. Si sentivano guardate, giudicate: dalla suocera, dai vicini, da tutti. Dovevano misurare gesti e parole. Anche quando piangevano i loro morti erano giudicate: se sapevano piangere e recitare le lodi del morto anche se era stato un marito violento. Erano le ultime a sedersi a tavola e le prime ad alzarsi. Le ultime ad andare a letto e le prime ad alzarsi. Sembravano fragili e arrendevoli invece avevano forza d’animo e senso della realtà. Se rimanevano vedove, sapevano affrontare i problemi. Alcune fecero grandi sacrifici per tenere i figli lontano dai campi, migliorarne la vita perfino mandarli a studiare a costo di debiti. Mia nonna rimase vedova (di guerra) a 23 anni ma si privò dell’aiuto del figlio pur di mandarlo a bottega.  Oggi quella vita sembra assurda, inaccettabile. Da non raccontare, da rifiutare. Allora sembrava normale perché quelle regole erano antiche, si respiravano nascendo. Non se ne conoscevano altre e se anche si conoscevano sembravano estranee a quel mondo che era andato avanti così da generazioni. Era normale vestire in quel modo che oggi farebbe sorridere e non avrebbero accettato uno diverso. Gonna e camicetta scure, fazzoletto per coprire la testa (legato alla nuca salvo quello per le cerimonie e per andare in chiesa, più grande- il fazzolettone- da annodare sotto il mento). La femminilità, tuttavia, non era soffocata: le si concedevano alcuni sobri ornamenti: gli orecchini d’oro, la catenina al collo ( u lacc-ttin’) che non raramente portava il ritratto di un caro morto. Sulla camicetta una piccola spilla di poco conto dono di un’ amica in pellegrinaggio a S. Nicola o S. Michele. Del resto, basta guardare foto dell’epoca per capire che non erano le sole italiane a vestire in quel modo che oggi sembra appartenere ad un altro mondo. Sapevano quelle donne, però, che una persona deve sapersi adattare. Quando cominciarono ad emigrare per raggiungere il marito lontano seppero adattarsi alla nuova realtà. La sera prima della partenza erano pronte come le farfalle che escono dal bozzo. Sostituivano la gonna e camicetta con una veste sobria ma più moderna, tagliavano la treccia raccolta dietro il capo ( u tupp’), gettavano il fazzoletto della testa. Pronte ad affrontare la nuova vita. Molte non accettavano di finire come le donne che le avevano precedute: volevano uscire anch’esse, andare nelle città del mondo, lavorare e guadagnare anche per liberarsi da tante catene. Rifiutavano di rimanere sole con mariti e figli in altre terre come era accaduto nel lontano passato. Mi raccontava una zia che subito dopo la guerra andò a Napoli: il marito tornava ogni 3-4 anni dall’ America. Volle andare con lei una conoscente che chiameremo Maria. Tornava finalmente anche il marito emigrato in America appena dopo sposati, da più di vent’anni. Non era mai tornato. Aveva mandato a casa i risparmi ma mai una foto. Mia zia vide suo marito sulla nave e lo salutò poi gli andò incontro. Affianco a lui c’era un uomo che chiameremo, per dscrezione, Mario. Maria lo guardò dubbiosa poi gli chiese: tu sei Mario? E scoppiò a piangere. Come sei invecchiato, gli disse. Le rispose: perché non ti guardi allo specchio?, anche tu sei invecchiata. Un mondo ormai lontano e non so se sia bene scriverne apparendo incomprensibile, inaccettabile.  Nel ricordarlo si rischia anche di dare un’idea imprecisa di quel mondo colmo di insoddisfazione e di tristezza. Non è così. Quelle stesse donne sapevano trovare momenti di serenità, sapevano dire battute, cantare, ridere, trovare momenti di grande socialità. Il bisogno di solidarietà, la necessità di scambiarsi attrezzi e manodopera favoriva legami e amicizie. Le donne più degli uomini riuscivano a creare legami non importa se intrisi di pettegolezzi. Sapevano essere solidali anche nella miseria. Mi raccontava una vecchia amica quasi novantenne che un giorno andò a casa sua un vicino, molto amico del marito che non era in casa. Le chiese un piccolo prestito. Non lo aveva mai chiesto prima. In casa, le disse, non aveva da dar da mangiare ai figli. Lei non aveva una lira era povera anche lei ed anche lei aveva molti figli ma non voleva mandar via quell’ amico senza un aiuto. Gli disse: svita i pomelli di ottone dal nostro letto e va a venderli, qualcosa ricaverai. L’uomo svitò i pomelli ed andò via. “Mi aspettavo tante botte da mio marito che spesso me le dava ma quella volta, quando tornò e gli dissi tutto, non reagì”. Così era quel piccolo mondo, a volte carico di nuvole minacciose a volte sereno. A volte ti strappava una bestemmia per il cattivo raccolto e il bisogno, a volte ti donava l’allegria di stare insieme. Ho ricordo di mia nonna materna: non possedeva nulla se non l’usufrutto della casa e dell’orto dove piantava patate e fagioli (anche lei era rimasta vedova presto). Viveva facendo la spigolatrice. Eppure la ricordo sempre sorridente. Cantava “Campagnola bella”. L’unica volta che vide un film fu in piazza: era la vita di Gesù Cristo. Era vissuta in miseria ma non era mai stata malata. Andò via la notte dopo la partenza di mia madre per il Canada: si era addormentata e non si era più svegliata. Forse fu più fortunata di tante donne di oggi, libere ricche infelici. Quello strano mondo passato dal quale siamo venuti noi forse merita di essere ricordato. Perciò mi riprometto di farlo ancora, consapevole che ne darò un’idea parziale, imprecisa. I ricordi passano necessariamente attraverso filtri complessi e sono in ogni caso soltanto piccoli spezzoni del passato spesso rigati macchiati ingialliti come una vecchia pellicola. No, quelle nostre nonne non erano né sante né eroine; non erano istruite e spesso erano del tutto analfabete; erano superstiziose. Avevano, però, per necessità e per tradizione le qualità che rendevano la vita umana, sopportabile anche tra tante difficoltà; erano il perno della casa senza pretenderlo di essere. Invecchiavano presto, piegate dalla fatica, dalla cattiva nutrizione, dalle scarse cure del proprio corpo ma spesso riuscivano a conservare sino alla fine la vitalità la capacità di fare e di pensare al futuro anche quando non avevano più futuro. Non avranno il monumento alla memoria. Ricordiamole, almeno, con gratitudine.  Nicola Picchione
 
Sopportavano, lavoravano persuase che fosse la regola di vita, un destino inevitabile soprattutto se si nasceva povere. Si sposavano molto giovani, quasi sempre la mattina presto. Lo sposo nemmeno lo conoscevano bene. Quando da fidanzato andava a far visita alla famiglia di lei si dovevano sedere lontano l’uno dall’altro. Non si dovevano toccare e nemmeno parlarsi direttamente. Spesso dovevano accettare un uomo senza amarlo. Di una sola si raccontava che arrivata davanti all’altare, alla domanda del prete se voleva sposare quell’uomo ebbe il coraggio di dire di no e alla domanda del prete sul perché fosse arrivata all’altare, rispose: “Mi ci hanno portato”. Era un’eccezione. Non so come sia andata a finire.

Si sentivano guardate, giudicate: dalla suocera, dai vicini, da tutti. Dovevano misurare gesti e parole. Anche quando piangevano i loro morti erano giudicate: se sapevano piangere e recitare le lodi del morto anche se era stato un marito violento. Erano le ultime a sedersi a tavola e le prime ad alzarsi. Le ultime ad andare a letto e le prime ad alzarsi. Sembravano fragili e arrendevoli invece avevano forza d’animo e senso della realtà. Se rimanevano vedove, sapevano affrontare i problemi. Alcune fecero grandi sacrifici per tenere i figli lontano dai campi, migliorarne la vita perfino mandarli a studiare a costo di debiti. Mia nonna rimase vedova (di guerra) a 23 anni ma si privò dell’aiuto del figlio pur di mandarlo a bottega.

Oggi quella vita sembra assurda, inaccettabile. Da non raccontare, da rifiutare. Allora sembrava normale perché quelle regole erano antiche, si respiravano nascendo. Non se ne conoscevano altre e se anche si conoscevano sembravano estranee a quel mondo che era andato avanti così da generazioni. Era normale vestire in quel modo che oggi farebbe sorridere e non avrebbero accettato uno diverso. Gonna e camicetta scure, fazzoletto per coprire la testa (legato alla nuca salvo quello per le cerimonie e per andare in chiesa, più grande- il fazzolettone- da annodare sotto il mento). La femminilità, tuttavia, non era soffocata: le si concedevano alcuni sobri ornamenti: gli orecchini d’oro, la catenina al collo ( u lacc-ttin’) che non raramente portava il ritratto di un caro morto. Sulla camicetta una piccola spilla di poco conto dono di un’ amica in pellegrinaggio a S. Nicola o S. Michele. Del resto, basta guardare foto dell’epoca per capire che non erano le sole italiane a vestire in quel modo che oggi sembra appartenere ad un altro mondo. Sapevano quelle donne, però, che una persona deve sapersi adattare.
 
Quando cominciarono ad emigrare per raggiungere il marito lontano seppero adattarsi alla nuova realtà. La sera prima della partenza erano pronte come le farfalle che escono dal bozzo. Sostituivano la gonna e camicetta con una veste sobria ma più moderna, tagliavano la treccia raccolta dietro il capo ( u tupp’), gettavano il fazzoletto della testa. Pronte ad affrontare la nuova vita. Molte non accettavano di finire come le donne che le avevano precedute: volevano uscire anch’esse, andare nelle città del mondo, lavorare e guadagnare anche per liberarsi da tante catene. Rifiutavano di rimanere sole con mariti e figli in altre terre come era accaduto nel lontano passato. Mi raccontava una zia che subito dopo la guerra andò a Napoli: il marito tornava ogni 3-4 anni dall’ America. Volle andare con lei una conoscente che chiameremo Maria. Tornava finalmente anche il marito emigrato in America appena dopo sposati, da più di vent’anni. Non era mai tornato. Aveva mandato a casa i risparmi ma mai una foto. Mia zia vide suo marito sulla nave e lo salutò poi gli andò incontro. Affianco a lui c’era un uomo che chiameremo, per dscrezione, Mario. Maria lo guardò dubbiosa poi gli chiese: tu sei Mario? E scoppiò a piangere. Come sei invecchiato, gli disse. Le rispose: perché non ti guardi allo specchio?, anche tu sei invecchiata. Un mondo ormai lontano e non so se sia bene scriverne apparendo incomprensibile, inaccettabile.
COME ERAVAMO Prenditi una pausa di tre minuti e leggi un altro racconto del dr Nicola Picchione, piano piano ti sembrera’ di vedere un film, avvertirai quasi  i rumori, alla fine ti sembrera’ di aver vissuto in quel periodo.  Foto: Nonna Flora di Nicola Lalli Zia Maria Libera e zia Paolina di Nicola Picchione    LE DONNE DI ALLORA  Tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. Da Antologia di Spoon River  Se potessi erigere un monumento in piazza, lo dedicherei alle donne del passato di Bonefro: le nonne e le madri dei più anziani di oggi. Raffigurerei una donna piccola col capo coperto dal fazzoletto legato alla nuca, la camicetta scura, la gonna lunga e ampia coperta da un zinale scuro, in testa una grossa, pesante cesta sospesa sulla “spar’n” e in braccio un bambino. La raffigurerei umile, col volto sereno rassegnato alla sofferenza. Le donne della povertà si somigliano tutte nel mondo, cambiano solo il dialetto e il colore della pelle. Sarebbe un monumento a tutte le donne di tutti i Sud del mondo sulle cui spalle solo apparentemente deboli pesavano spesso gran parte dei matrimoni, i figli, le famiglie. Le donne dei Sud del mondo si somigliano: sembrano fragili ma sono forti, sembrano rassegnate ma sono decise; sembrano ignoranti ma sanno governare la famiglia. Non erano diverse dalle altre donne le nostre nonne non erano sante né tutte e sempre virtuose. Avevano, credo, i pensieri e i desideri di tutte le donne del mondo, la voglia di intrigarsi delle cose degli altri, le debolezze e i peccati che l’umanità si porta addosso. Se tu fossi andato a sentirle al forno mentre cuoceva il pane avresti sentito tanti pettegolezzi; e se le avessi viste in fila alla fontana con la tina di rame in mano avresti anche potuto assistere a liti.  La sorte aveva affidato loro compiti pesanti ai quali si abituavano sin da ragazze. Già prima dei dieci anni imparavano a lavare, a fare il pane dritte su uno sgabello per arrivare alla vasca della madia, ad accudire a un fratellino. Dovevano aiutare gli uomini nei campi ma anche mandare avanti la casa, fare e allevare figli spesso numerosi che partorivano in casa e qualche volta nel campo in un pagliaio. Dovevano far quadrare i miseri bilanci nei quali ogni lira aveva valore. Dovevano ubbidire ai mariti e spesso ai suoceri se conviventi. Erano le custodi della pace di casa, a costo di bugie per nascondere le colpe dei figli e di vendere di nascosto qualche uovo per piccole spese che il marito non avrebbe approvato. Quando tornavano dai campi la loro fatica non era finita. Preparare la cucina, senza gas senza pasta confezionata che era un lusso riservato- ma non per tutti- ai giorni di festa. Dovevano pensare ai bisogni delle galline e del maiale mentre l’uomo governava l’asino o il mulo. Dovevano comprare meno cose possibili, il sale lo zucchero. Non il caffè che veniva preparato, senza macchinetta, solo per portarlo col termos come “riconsolo” a chi aveva avuto una morte in famiglia. Con la “posa” si preparava il caffè per casa. La donna rimaneva a casa quando doveva fare il pane ma prima doveva cernere la farina che aveva riportato dal mulino, prendere accordi col fornaio. Rimaneva in casa quando doveva fare il bucato al ruscello. Doveva saper lavorare d’ago, rattoppare calze, pantaloni, giacche. Le più brave facevano camicie e calze. Le donne di Bonefro erano famose nei dintorni per le loro capacità, per come riuscivano a risparmiare e a tenere la “rima della casa”, termine in disuso ma che indicava ordine pulizia essenzialità. Molti anni fa un vecchio di S. Giuliano mi disse che mentre non avrebbe mai fatto sposare una figlia con un bonefrano (li riteneva, credo esagerando, rudi a volte violenti e avari) volentieri avrebbe fatto sposare un figlio a una donna di Bonefro. Molte virtù nascevano dalla necessità. Imparavano da piccole a ubbidire, lavorare, sopportare anche le violenze. Portavano segnato il loro destino sin dalla nascita. Avere una figlia non era gradito. Era considerato un peso. Non tramandava il proprio nome, non faceva il lavoro considerato remunerativo, richiedeva una dote. Un amico di famiglia non volle andare al matrimonio dei miei perché gli era nata il giorno prima una femmina: quasi un lutto, anche se poi fu quella figlia ad accudirlo nella vecchiaia e non il maschio che nacque dopo. Imparavano presto a fronteggiare la vita, a mandare avanti la casa. Molto presto dovevano mettere da parte la piccola bambola di pezza ( a pupiatt’). Le loro mamme erano analfabete; molte di loro non finivano le elementari. Molte imparavano a ricamare per preparare il corredo. Dovevano uscire di casa il meno possibile e spiare dietro i vetri delle finestre se passava l’innamorato. Qualcuna, mi diceva, gettava l’acqua della tina solo per tornare alla fontana. Sapevano sopportare, le donne di Bonefro. Era questa la virtù che salvava molti matrimoni. Sopportavano se il marito si ubriacava, tolleravano i comandi. Anche da adulte, a molte il comando del marito arrivava con lo sprezzante epiteto: “Guegliò” come fosse ancora una ragazza da sottomettere. Alcune erano anche rassegnate alle percosse che subivano in silenzio. Mi raccontava recentemente un’ amica ormai anziana che un giorno trovò la suocera col volto tumefatto ed ecchimotico (“rann’rit”). Le raccontò di una inverosimile caduta ma poi dovette ammettere che la sera prima era stata colta dal sonno per la stanchezza e non aveva sentito bussare il marito che rientrava tardi dalla “cantina”. Fu punita con pugni e calci. Si raccomandò di non dire nulla ai figli, per la pace di casa. Mi raccontava un vecchio amico- di quelli che incontro in piazza quando torno e con i quali parlo con piacere- di un suo vicino. Un giorno aveva preceduto in campagna la moglie che aveva da fare a casa, ordinandole di portargli un pacchetto di tabacco. La moglie, finiti i lavori a casa, si avviò verso il campo distante, a Gerione, con una cesta piena in testa. Arrivò già stanca. Il marito da lontano le urlò di affrettare il passo, aveva gran voglia di fumare. Solo allora la donna si ricordò del tabacco. “Non fare un solo passo- le ordinò il marito- posa la cesta e torna immediatamente a comprarmi il tabacco”. Sopportavano, lavoravano persuase che fosse la regola di vita, un destino inevitabile soprattutto se si nasceva povere. Si sposavano molto giovani, quasi sempre la mattina presto. Lo sposo nemmeno lo conoscevano bene. Quando da fidanzato andava a far visita alla famiglia di lei si dovevano sedere lontano l’uno dall’altro. Non si dovevano toccare e nemmeno parlarsi direttamente. Spesso dovevano accettare un uomo senza amarlo. Di una sola si raccontava che arrivata davanti all’altare, alla domanda del prete se voleva sposare quell’uomo ebbe il coraggio di dire di no e alla domanda del prete sul perché fosse arrivata all’altare, rispose: “Mi ci hanno portato”. Era un’eccezione. Non so come sia andata a finire. Si sentivano guardate, giudicate: dalla suocera, dai vicini, da tutti. Dovevano misurare gesti e parole. Anche quando piangevano i loro morti erano giudicate: se sapevano piangere e recitare le lodi del morto anche se era stato un marito violento. Erano le ultime a sedersi a tavola e le prime ad alzarsi. Le ultime ad andare a letto e le prime ad alzarsi. Sembravano fragili e arrendevoli invece avevano forza d’animo e senso della realtà. Se rimanevano vedove, sapevano affrontare i problemi. Alcune fecero grandi sacrifici per tenere i figli lontano dai campi, migliorarne la vita perfino mandarli a studiare a costo di debiti. Mia nonna rimase vedova (di guerra) a 23 anni ma si privò dell’aiuto del figlio pur di mandarlo a bottega.  Oggi quella vita sembra assurda, inaccettabile. Da non raccontare, da rifiutare. Allora sembrava normale perché quelle regole erano antiche, si respiravano nascendo. Non se ne conoscevano altre e se anche si conoscevano sembravano estranee a quel mondo che era andato avanti così da generazioni. Era normale vestire in quel modo che oggi farebbe sorridere e non avrebbero accettato uno diverso. Gonna e camicetta scure, fazzoletto per coprire la testa (legato alla nuca salvo quello per le cerimonie e per andare in chiesa, più grande- il fazzolettone- da annodare sotto il mento). La femminilità, tuttavia, non era soffocata: le si concedevano alcuni sobri ornamenti: gli orecchini d’oro, la catenina al collo ( u lacc-ttin’) che non raramente portava il ritratto di un caro morto. Sulla camicetta una piccola spilla di poco conto dono di un’ amica in pellegrinaggio a S. Nicola o S. Michele. Del resto, basta guardare foto dell’epoca per capire che non erano le sole italiane a vestire in quel modo che oggi sembra appartenere ad un altro mondo. Sapevano quelle donne, però, che una persona deve sapersi adattare. Quando cominciarono ad emigrare per raggiungere il marito lontano seppero adattarsi alla nuova realtà. La sera prima della partenza erano pronte come le farfalle che escono dal bozzo. Sostituivano la gonna e camicetta con una veste sobria ma più moderna, tagliavano la treccia raccolta dietro il capo ( u tupp’), gettavano il fazzoletto della testa. Pronte ad affrontare la nuova vita. Molte non accettavano di finire come le donne che le avevano precedute: volevano uscire anch’esse, andare nelle città del mondo, lavorare e guadagnare anche per liberarsi da tante catene. Rifiutavano di rimanere sole con mariti e figli in altre terre come era accaduto nel lontano passato. Mi raccontava una zia che subito dopo la guerra andò a Napoli: il marito tornava ogni 3-4 anni dall’ America. Volle andare con lei una conoscente che chiameremo Maria. Tornava finalmente anche il marito emigrato in America appena dopo sposati, da più di vent’anni. Non era mai tornato. Aveva mandato a casa i risparmi ma mai una foto. Mia zia vide suo marito sulla nave e lo salutò poi gli andò incontro. Affianco a lui c’era un uomo che chiameremo, per dscrezione, Mario. Maria lo guardò dubbiosa poi gli chiese: tu sei Mario? E scoppiò a piangere. Come sei invecchiato, gli disse. Le rispose: perché non ti guardi allo specchio?, anche tu sei invecchiata. Un mondo ormai lontano e non so se sia bene scriverne apparendo incomprensibile, inaccettabile.  Nel ricordarlo si rischia anche di dare un’idea imprecisa di quel mondo colmo di insoddisfazione e di tristezza. Non è così. Quelle stesse donne sapevano trovare momenti di serenità, sapevano dire battute, cantare, ridere, trovare momenti di grande socialità. Il bisogno di solidarietà, la necessità di scambiarsi attrezzi e manodopera favoriva legami e amicizie. Le donne più degli uomini riuscivano a creare legami non importa se intrisi di pettegolezzi. Sapevano essere solidali anche nella miseria. Mi raccontava una vecchia amica quasi novantenne che un giorno andò a casa sua un vicino, molto amico del marito che non era in casa. Le chiese un piccolo prestito. Non lo aveva mai chiesto prima. In casa, le disse, non aveva da dar da mangiare ai figli. Lei non aveva una lira era povera anche lei ed anche lei aveva molti figli ma non voleva mandar via quell’ amico senza un aiuto. Gli disse: svita i pomelli di ottone dal nostro letto e va a venderli, qualcosa ricaverai. L’uomo svitò i pomelli ed andò via. “Mi aspettavo tante botte da mio marito che spesso me le dava ma quella volta, quando tornò e gli dissi tutto, non reagì”. Così era quel piccolo mondo, a volte carico di nuvole minacciose a volte sereno. A volte ti strappava una bestemmia per il cattivo raccolto e il bisogno, a volte ti donava l’allegria di stare insieme. Ho ricordo di mia nonna materna: non possedeva nulla se non l’usufrutto della casa e dell’orto dove piantava patate e fagioli (anche lei era rimasta vedova presto). Viveva facendo la spigolatrice. Eppure la ricordo sempre sorridente. Cantava “Campagnola bella”. L’unica volta che vide un film fu in piazza: era la vita di Gesù Cristo. Era vissuta in miseria ma non era mai stata malata. Andò via la notte dopo la partenza di mia madre per il Canada: si era addormentata e non si era più svegliata. Forse fu più fortunata di tante donne di oggi, libere ricche infelici. Quello strano mondo passato dal quale siamo venuti noi forse merita di essere ricordato. Perciò mi riprometto di farlo ancora, consapevole che ne darò un’idea parziale, imprecisa. I ricordi passano necessariamente attraverso filtri complessi e sono in ogni caso soltanto piccoli spezzoni del passato spesso rigati macchiati ingialliti come una vecchia pellicola. No, quelle nostre nonne non erano né sante né eroine; non erano istruite e spesso erano del tutto analfabete; erano superstiziose. Avevano, però, per necessità e per tradizione le qualità che rendevano la vita umana, sopportabile anche tra tante difficoltà; erano il perno della casa senza pretenderlo di essere. Invecchiavano presto, piegate dalla fatica, dalla cattiva nutrizione, dalle scarse cure del proprio corpo ma spesso riuscivano a conservare sino alla fine la vitalità la capacità di fare e di pensare al futuro anche quando non avevano più futuro. Non avranno il monumento alla memoria. Ricordiamole, almeno, con gratitudine.  Nicola Picchione

Nel ricordarlo si rischia anche di dare un’idea imprecisa di quel mondo colmo di insoddisfazione e di tristezza. Non è così. Quelle stesse donne sapevano trovare momenti di serenità, sapevano dire battute, cantare, ridere, trovare momenti di grande socialità. Il bisogno di solidarietà, la necessità di scambiarsi attrezzi e manodopera favoriva legami e amicizie. Le donne più degli uomini riuscivano a creare legami non importa se intrisi di pettegolezzi. Sapevano essere solidali anche nella miseria. Mi raccontava una vecchia amica quasi novantenne che un giorno andò a casa sua un vicino, molto amico del marito che non era in casa. Le chiese un piccolo prestito.
 
Non lo aveva mai chiesto prima. In casa, le disse, non aveva da dar da mangiare ai figli. Lei non aveva una lira era povera anche lei ed anche lei aveva molti figli ma non voleva mandar via quell’ amico senza un aiuto. Gli disse: svita i pomelli di ottone dal nostro letto e va a venderli, qualcosa ricaverai. L’uomo svitò i pomelli ed andò via. “Mi aspettavo tante botte da mio marito che spesso me le dava ma quella volta, quando tornò e gli dissi tutto, non reagì”. Così era quel piccolo mondo, a volte carico di nuvole minacciose a volte sereno. A volte ti strappava una bestemmia per il cattivo raccolto e il bisogno, a volte ti donava l’allegria di stare insieme. Ho ricordo di mia nonna materna: non possedeva nulla se non l’usufrutto della casa e dell’orto dove piantava patate e fagioli (anche lei era rimasta vedova presto). Viveva facendo la spigolatrice.
 
 Eppure la ricordo sempre sorridente. Cantava “Campagnola bella”. L’unica volta che vide un film fu in piazza: era la vita di Gesù Cristo. Era vissuta in miseria ma non era mai stata malata. Andò via la notte dopo la partenza di mia madre per il Canada: si era addormentata e non si era più svegliata. Forse fu più fortunata di tante donne di oggi, libere ricche infelici.

Quello strano mondo passato dal quale siamo venuti noi forse merita di essere ricordato. Perciò mi riprometto di farlo ancora, consapevole che ne darò un’idea parziale, imprecisa. I ricordi passano necessariamente attraverso filtri complessi e sono in ogni caso soltanto piccoli spezzoni del passato spesso rigati macchiati ingialliti come una vecchia pellicola.

No, quelle nostre nonne non erano né sante né eroine; non erano istruite e spesso erano del tutto analfabete; erano superstiziose. Avevano, però, per necessità e per tradizione le qualità che rendevano la vita umana, sopportabile anche tra tante difficoltà; erano il perno della casa senza pretenderlo di essere. Invecchiavano presto, piegate dalla fatica, dalla cattiva nutrizione, dalle scarse cure del proprio corpo ma spesso riuscivano a conservare sino alla fine la vitalità la capacità di fare e di pensare al futuro anche quando non avevano più futuro.

Non avranno il monumento alla memoria. Ricordiamole, almeno, con gratitudine.

Commenti

  1. Grazie per l'ospitalità. Vorrei precisare che non si tratta di racconti ma di semplici annotazioni sul filo della memoria, scritte su sollecitazione dell'amico che gestisce il sito Bonefro.Net( dove è ospitato anche qualcuno dei miei racconti veri, in rubrica a parte).
    Nicola Picchione

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  2. mi dispiace per l'errore che non mi vieta di dire che sono annotazioni belle e interessanti.

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  3. Ancora una volta Nicola ci conquista con questo suo articolo. Questo nostro bravo molisano sa descrivere l'animo profondo dei suoi corregionali. Ho già publicato diversi articoli di Nicola Picchione sulla newsletter ''Comunicazione Molisani'' che purtroppo non esiste più dal mese di gennaio scorso. Ma mi fa piacere di vedere che Nicola continua ad esplorare il suo piccolo ''grande '' Molise. Nicola Franco, Montreal, Canadà. masfrakal@videotron.ca

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