Non servono nuove varietà di olivo ma una scelta politica chiara

.............................- ...........TEATRO NATURALE - Editoriali 21/06/2024
A partire dagli anni ’60 in Italia, la terra per eccellenza del vino e dell’olio, le politiche riguardanti queste due colture primarie della nostra agricoltura, fino ad allora unite da seimila anni sempre insieme, prendono strade diverse.
Il tempo che ha visto questi due doni preziosi della natura, ancora più preziosi nelle mani e nella mente dell’uomo coltivatore che, così, diventa viticoltore e olivicoltore, ovvero uno specialista nella cura di due piante che trovano nei paesi bagnati dal Mediterraneo l’ambiente ideale. Ancor più in Italia, il paese dei mille luoghi, l’uno diverso dagli altri, tant’è che con l’avanzare della loro diffusione modificano i caratteri per adattarsi meglio all’ambiente trovato, quello espresso da un nuovo territorio, l’origine non solo della qualità, ma, anche - grazie alla nascita di nuove varietà che diventano autoctone - della diversità. Non a caso le due coltivazioni che danno al nostro Paese primati mondiali in quanto a biodiversità, cioè varietà autoctone che esprimono caratteri organolettici diversi. La vite, prendendo esempio dalla Francia, coglie e fa propria l’opportunità di dare spazio alla sua biodiversità per smetterla di dare solo vino bianco o rosso, ma vini, tanti e ognuno testimone di un territorio. L’olivo resta fermo in mancanza di scelte politiche. Ed è cosi che i due compagni, dopo millenni di avventure insieme si dividono prendendo due strade diverse: la vite, apre alla ricerca dell’origine per dare un nome alla qualità e rendere il vino testimone d’eccellenza con il Dpr 930 del 1963 e l’istituzione di un apposito Comitato nazionale atto a riconoscere un disciplinare di produzione e la denominazione di origine controllata (doc); l’olivo, la coltivazione principe della biodiversità (oltre 550 varietà autoctone), la più “protetta” da una miriade di organizzazioni professionali, sindacali, cooperative, consorzi e associazioni, viene messa nelle mani dell’industria olearia, che apre alla Spagna. Una coltivazione talmente “protetta” che, nell’arco di due decenni, vede il sorpasso della Spagna olivicola per superfici occupate, quantità prodotte e, nel breve tempo, volumi di olio esportati con l’immagine di famose industrie olearie italiane, come Carapelli, Bertolli e altre ancora. Una svolta che, nel corso degli ultimi quarant’anni, porta l’Italia olivicola a non essere più prima al mondo, ma seconda. Al danno dovuto al vuoto politico e sindacale - manca ancora oggi un Piano olivicolo - c’è da aggiungere la beffa della messa a disposizione di tre varietà spagnole per dare il via a impianti olivicoli intensivi proprio nel momento in cui l’agricoltura intensiva veniva dichiarata distruttiva di fertilità e, con gli allevamenti intensivi, seconda causa dell’aggravamento della situazione climatica, che - non lo sanno i “trattori” che hanno protestato e le “lobby” che li hanno guidati – punisce per prima e più duramente, con la siccità, proprio l’agricoltura e, con essa, anche l’olivicoltura. Ne sanno qualcosa gli olivicoltori della Regione più olivetata al mondo, l’Andalusia, quella con la maggiore estensione degli oliveti intensivi, che, nelle ultime tre annate, ha dimezzato, causa la siccità determinata dai cambiamenti climatici, la produzione. Una lezione che fa capire la necessità di agire in modo pianificato e strategico quando si pensa di dover migliorare la produzione dell’oliveto per assicurare un reddito giusto all’olivicoltore. Non serve la ricerca di nuove varietà di olivo (l’appello letto qualche giorno fa a sostegno dei vivaisti) o la moltiplicazione del numero di olivi in un campo se viene meno il rispetto per la terra e l’ambiente, premessa essenziale per dare al presente la continuità del domani. Servono, per la sopravvivenza della coltura e del suo ambiente, la salvaguardia e tutela del territorio - oggi ancor più di ieri – metodi e strategie all’insegna della sostenibilità. Ciò che disturba è che mentre in Andalusia la realtà porta a un primo ripensamento, in Italia, sulla spinta di vivaisti e di tecnici, così ben educati dal sistema a pensare solo al profitto, ha preso il largo la posa in opera di oliveti superintensivi. Oliveti che negano, fra le tante cose, il valore e il significato della biodiversità olivicola, cioè la possibilità di avere, gustare e godere i caratteri organolettici differenti, ma - a testimoniare la scelta della quantità al posto della qualità e dei suoi diversi caratteri - di offrire un olio sempre e ovunque uguale. Oliveti che, oltretutto, non assicurano il domani di un comparto fondamentale per: agricoltura; clima; salute umana e ambientale; paesaggio, tradizioni e lo stile di vita, la Dieta mediterranea, che, grazie al cibo, tutti ci invidiano. Oliveti, però, in linea con il pensiero unico del sistema delle banche e delle multinazionali, che, in mancanza del senso del limite e del finito, continua a depredare e distruggere.Il tempo che ha visto questi due doni preziosi della natura, ancora più preziosi nelle mani e nella mente dell’uomo coltivatore che, così, diventa viticoltore e olivicoltore, ovvero uno specialista nella cura di due piante che trovano nei paesi bagnati dal Mediterraneo l’ambiente ideale. Ancor più in Italia, il paese dei mille luoghi, l’uno diverso dagli altri, tant’è che con l’avanzare della loro diffusione modificano i caratteri per adattarsi meglio all’ambiente trovato, quello espresso da un nuovo territorio, l’origine non solo della qualità, ma, anche - grazie alla nascita di nuove varietà che diventano autoctone - della diversità. Non a caso le due coltivazioni che danno al nostro Paese primati mondiali in quanto a biodiversità, cioè varietà autoctone che esprimono caratteri organolettici diversi. La vite, prendendo esempio dalla Francia, coglie e fa propria l’opportunità di dare spazio alla sua biodiversità per smetterla di dare solo vino bianco o rosso, ma vini, tanti e ognuno testimone di un territorio. L’olivo resta fermo in mancanza di scelte politiche. Ed è cosi che i due compagni, dopo millenni di avventure insieme si dividono prendendo due strade diverse: la vite, apre alla ricerca dell’origine per dare un nome alla qualità e rendere il vino testimone d’eccellenza con il Dpr 930 del 1963 e l’istituzione di un apposito Comitato nazionale atto a riconoscere un disciplinare di produzione e la denominazione di origine controllata (doc); l’olivo, la coltivazione principe della biodiversità (oltre 550 varietà autoctone), la più “protetta” da una miriade di organizzazioni professionali, sindacali, cooperative, consorzi e associazioni, viene messa nelle mani dell’industria olearia, che apre alla Spagna. Una coltivazione talmente “protetta” che, nell’arco di due decenni, vede il sorpasso della Spagna olivicola per superfici occupate, quantità prodotte e, nel breve tempo, volumi di olio esportati con l’immagine di famose industrie olearie italiane, come Carapelli, Bertolli e altre ancora. Una svolta che, nel corso degli ultimi quarant’anni, porta l’Italia olivicola a non essere più prima al mondo, ma seconda. Al danno dovuto al vuoto politico e sindacale - manca ancora oggi un Piano olivicolo - c’è da aggiungere la beffa della messa a disposizione di tre varietà spagnole per dare il via a impianti olivicoli intensivi proprio nel momento in cui l’agricoltura intensiva veniva dichiarata distruttiva di fertilità e, con gli allevamenti intensivi, seconda causa dell’aggravamento della situazione climatica, che - non lo sanno i “trattori” che hanno protestato e le “lobby” che li hanno guidati – punisce per prima e più duramente, con la siccità, proprio l’agricoltura e, con essa, anche l’olivicoltura. Ne sanno qualcosa gli olivicoltori della Regione più olivetata al mondo, l’Andalusia, quella con la maggiore estensione degli oliveti intensivi, che, nelle ultime tre annate, ha dimezzato, causa la siccità determinata dai cambiamenti climatici, la produzione. Una lezione che fa capire la necessità di agire in modo pianificato e strategico quando si pensa di dover migliorare la produzione dell’oliveto per assicurare un reddito giusto all’olivicoltore. Non serve la ricerca di nuove varietà di olivo (l’appello letto qualche giorno fa a sostegno dei vivaisti) o la moltiplicazione del numero di olivi in un campo se viene meno il rispetto per la terra e l’ambiente, premessa essenziale per dare al presente la continuità del domani. Servono, per la sopravvivenza della coltura e del suo ambiente, la salvaguardia e tutela del territorio - oggi ancor più di ieri – metodi e strategie all’insegna della sostenibilità. Ciò che disturba è che mentre in Andalusia la realtà porta a un primo ripensamento, in Italia, sulla spinta di vivaisti e di tecnici, così ben educati dal sistema a pensare solo al profitto, ha preso il largo la posa in opera di oliveti superintensivi. Oliveti che negano, fra le tante cose, il valore e il significato della biodiversità olivicola, cioè la possibilità di avere, gustare e godere i caratteri organolettici differenti, ma - a testimoniare la scelta della quantità al posto della qualità e dei suoi diversi caratteri - di offrire un olio sempre e ovunque uguale. Oliveti che, oltretutto, non assicurano il domani di un comparto fondamentale per: agricoltura; clima; salute umana e ambientale; paesaggio, tradizioni e lo stile di vita, la Dieta mediterranea, che, grazie al cibo, tutti ci invidiano. Oliveti, però, in linea con il pensiero unico del sistema delle banche e delle multinazionali, che, in mancanza del senso del limite e del finito, continua a depredare e distruggere.

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