Le logiche del regionalismo differenziato
di
Umberto Berardo
Disegno di Ro Marcenaro |
Sappiamo
tutti come negli ultimi anni siano fioriti i tentativi di riforma della
Costituzione italiana.
Con
la legge costituzionale n. 3 dell'ottobre 2001 si è cambiato il riparto di
competenze legislative tra lo Stato e le regioni e la forma di governo delle
stesse con la modifica del Titolo V negli articoli 121, 122 e 123 generando
tuttavia più di un conflitto di competenza reciproca tra gli enti locali ed il
Parlamento.
Nel
dicembre del 2016 il governo Renzi con un referendum tentò, per fortuna senza
esito positivo, uno stravolgimento pericoloso della stessa Carta fondamentale.
Il
22 ottobre 2017 si sono celebrati due referendum consultivi in Lombardia e
Veneto sulla possibile richiesta di nuove forme di autonomia.
Ora
Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sicuramente potranno essere seguite da
altre regioni, hanno avviato l'iter per una richiesta di cosiddetto
"regionalismo differenziato" a norma del terzo comma dell'art. 116
della Costituzione per reclamare ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia.
Sugli
ultimi due atti politici, sicuramente legittimi sul piano strettamente formale,
ma che ovviamente non riguardano negli effetti solo le regioni in questione
come si vorrebbe far credere, il dibattito nel Paese è stato finora pressoché
assente.
A
nostro modesto avviso il silenzio al riguardo è causato da una sottovalutazione
politica degli obiettivi reali che si stanno inseguendo e che cercheremo di
analizzare poi nei particolari.
A
chi segue con attenzione gli eventi politici dovrebbe essere chiaro che le
richieste di secessione della fantomatica Padania prima, di federalismo poi ed
oggi di regionalismo asimmetrico a forte trazione leghista, se avessero per
finalità un'autonomia solidale, sarebbero poste non a livello locale, ma in
sede di Conferenza Stato-Regioni al fine di renderle un atto politico
riguardante non tre regioni ma tutte insieme nella loro complessità.
Se
questa fosse stata la volontà quindi, si sarebbe partiti non da richieste
locali, ma da un tavolo comune di livello interregionale per studiare la
migliore attuazione non solo degli articoli 116, 117 e 119 ma anche di quel
fondamentale articolo 5 che recita con chiarezza "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali" .
In
tal modo, oltre ad esigere nuove forme di autonomia per le regioni a statuto
ordinario, come previsto dal terzo comma dell'art.116, si sarebbe potuta
immaginare anche una discussione sulla eventuale revisione del primo comma
dello stesso ponendo il problema di un'eliminazione delle regioni a statuto
speciale che avranno avuto origine per comprensibilissime motivazioni storiche,
sociali e culturali, ma che tuttavia oggi vanno sicuramente riconsiderate
domandandosi se abbia ancora un senso la loro esistenza sul piano politico ed
istituzionale.
Insomma,
per essere chiari fino in fondo, noi ci chiediamo in maniera smaliziata ,
ponendo il tutto come un quesito scottante alla riflessione comune, se la
richiesta di maggiore autonomia unicamente da parte di tre regioni
settentrionali sia volta solo a valorizzare le loro potenzialità o abbia invece
il fine di una deriva localistica da parte di territori più sviluppati che
rincorrono risorse finanziarie aggiuntive.
In
questo secondo caso si rischierebbe una diminuzione quasi certa del fondo
perequativo previsto dal quinto comma dell'art. 119 che recita: "Per promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato
destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni".
In
tal modo, è inutile sottolinearlo, a soffrirne sarebbero soprattutto le regioni
meno sviluppate economicamente ed in particolare quelle del Mezzogiorno dove il
fondo perequativo avrebbe dovuto garantire in maniera almeno adeguata alcune
esigenze fondamentali ancora limitate sul piano della qualità della vita quali
sono i diritti alla casa, al lavoro, alle cure sanitarie, all'istruzione e ad
infrastrutture decenti.
Così
la Questione Meridionale, la cui locuzione fu impiegata già dal deputato
radicale lombardo Antonio Billia nel 1873, lungi da soluzioni accettabili,
rimane irrisolta a tutti gli effetti non essendo la politica riuscita a ridurre
il gap, già sottolineato da taluni meridionalisti come F. S. Nitti o G.
Salvemini, tra le due Italie geografiche a diversa trazione economica e sociale.
L'attivazione
di un'autonomia fortemente differenziata con uno sviluppo a diversa velocità,
che taluni economisti e politici insistono a delineare, aumentando fortemente
le competenze di tipo amministrativo e legislativo nelle materie concorrenti
con lo Stato ed in quelle esclusive, non può che accentuare le disuguaglianze
sul piano territoriale in particolare per le regioni più piccole che finiranno
per perdere magari la stessa autonomia.
Non
ci meravigliamo delle posizioni di talune forze politiche che hanno stimolato e
stanno sostenendo la richiesta di regionalismo differenziato perché sappiamo
che i loro principi ispiratori non sono orientati alla coesione unitaria delle
realtà locali prevista appunto nel già citato articolo 5 dei Principi Fondamentali
della Costituzione italiana.
Ci
lascia al contrario esterrefatti l'assenza nella riflessione su tale tema di
quanti per anni si sono riempiti la bocca di ideali quali la solidarietà e l'eguaglianza.
Anche
l'ipotesi della costituzione delle macroregioni, pure lanciata da molti anni,
non ha fatto passi significativi a testimonianza del fatto che anch'essa è
fortemente avversata vuoi per i pericoli di una fagocitazione o
marginalizzazione delle regioni più piccole che per gli ostacoli da parte di un
provincialismo duro a finire.
Quando
in ogni caso si nicchia su questioni così serie, davvero c'è da pensare che
forse si stiano fortemente sottovalutando le implicazioni negative sottese del
percorso legislativo avviato che dovrà essere analizzato con la capacità di
approfondirlo adeguatamente ed eventualmente portato fino al referendum.
Per
fortuna quest'ultimo richiede un iter alquanto complesso che dovrebbe aiutare
una coscientizzazione generale sulla questione permettendo di acquisire la
responsabilità politica che oggi sembra mancare.
Dopo
la presentazione della richiesta da parte delle regioni interessate al Presidente del Consiglio dei
ministri come al Ministro per gli affari regionali e la consultazione
del Consiglio delle autonomie locali, si avvieranno i negoziati tra lo Stato e
gli Enti territoriali interessati; successivamente il Governo o altri titolari
di iniziativa legislativa presenteranno alle Camere il disegno di legge che
dovrà essere approvato a maggioranza assoluta ed eventualmente sottoposto a
referendum popolare secondo le disposizioni dell'art. 138 della Costituzione.
Il
percorso, come si vede, è lungo e dunque dovrebbe permettere di uscire da
quell'indifferenza che sembra avvolgere la maggior parte delle forze politiche
e dell'opinione pubblica.
Qualche
spiraglio negli ultimi giorni sembra aprire spazi a taluni dibattiti
territoriali.
Occorre
animarli e diffonderli per arrivare possibilmente ad un tavolo di lavoro
interregionale in grado di delineare la struttura di un autonomismo che
preservi l'unità della nazione e la garanzia di un'equità nella distribuzione
dei fondi pubblici per lo sviluppo dell'intero territorio dello Stato.
Non
vorremmo davvero che, se non si è riusciti fin qui a stravolgere la
Costituzione italiana con un unico tentativo, si provi ora a destrutturarla con
diverse modifiche parziali ma certamente altrettanto destabilizzanti per il
Paese.
Commenti
Posta un commento