Contro l’invasione degli anglicismi, difendiamo l’italiano

da Micromega




intervista a Antonio Zoppetti di Giacomo Russo Spena

A chiunque di noi è giunto il messaggio della compagnia telefonica: “Il report con le tue performance del mese è online”. Ormai, non ci si fa più neanche caso ai termini utilizzati: “report”, “performance”, “online”. Anglicismi inutili quando si potrebbe dire semplicemente che in Rete si trovano i consumi del cellulare. E i casi potrebbero essere innumerevoli ed in ogni campo. Insegnante e saggista Antonio Zoppetti, su questo, sta compiendo una crociata. Prima ha pubblicato un libro per la Hoepli Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, adesso ha inaugurato il sito aaa.italofonia.info un dizionario in Rete, gratuito e a disposizione di tutti, che raccoglie i 3.500 anglicismi più diffusi con spiegazioni, alternative e sinonimi in italiano.*

Nel suo libro parla di Itanglese. Veramente a furia di utilizzare termini inglesi si corre il pericolo di snaturare la lingua italiana? Non è un’esagerazione?

Il mio non è uno dei tanti allarmi beceri basati sulle sensazioni e sul fastidio, mi appoggio ai numeri e ai fatti. Il Devoto Oli del 1990 registrava circa 1.600 parole inglesi, e una buona parte erano tecnicismi di bassa diffusione; 30 anni dopo sono circa 3.500 e non sono più di settore, moltissimi sono straripati nel linguaggio comune. Nel mio libro ho dimostrato con le statistiche che gli argomenti dei “negazionisti” che ci dicono che va tutto bene e che l’italiano non è in pericolo non sono più sostenibili. E il dato più allarmante riguarda il Nuovo millennio: circa la metà dei neologismi di Zingarelli e Devoto Oli è in inglese. L’italiano rischia di diventare la “lingua dei morti”, che come un dialetto può esprimere la poesia e la natura, ma si rivela sempre più incapace di evolvere autonomamente con le sue parole per esprimere il contemporaneo, la tecnologia, la scienza... il futuro.

Numerosi altri esempi sono nel campo della politica: flat tax, jobs act, spending review; altri penetrano persino nel linguaggio istituzionale (welfare, privacy, premier) e giuridico (mobbing, stalking). Siamo ad un fenomeno complessivo ed in aumento?

L’aumento è senza precedenti. I sostrati plurisecolari del francese, che ci ha influenzati sin dai tempi di Dante, e poi attraverso le invasioni, Napoleone e fino alla Belle Époque, ci ha lasciato solo un migliaio di gallicismi non adattati, le altre parole sono state italianizzate e assimilate, dunque hanno rappresentato un arricchimento linguistico, non un impoverimento. Con l’inglese avviene il contrario, non si adatta proprio nulla e il risultato è la colonizzazione di ogni ambito di parole che violano i nostri suoni e le nostre regole grammaticali. L’informatica è il settore più compromesso, moltissimi termini non hanno alternative in circolazione e perciò non è più possibile dirlo in italiano. In ufficio accendiamo il computer, che fino agli anni 90 si diceva calcolatore o anche elaboratore, ma oggi è computer e basta. Il mouse non l’abbiamo nemmeno tradotto, e ci manca un termine nostrano per un oggetto così comune. Invece all’estero è ovunque “topo” (souris in Francia, raton in Spagna, rato in Portogallo, Maus in Germania). Il linguaggio aziendale si anglicizza giorno dopo giorno, le professioni sono in inglese (basta scorrere gli annunci di lavoro!), i titoli dei film non si traducono più, la pubblicità ammicca all’inglese, così come l’economia, lo sport, la tecnologia... La televisione, che un tempo ha contribuito all’unificazione linguistica, oggi divulga l’inglese nel suo gergo (fiction, talk show, reality, format, soap opera, share, sit com...), nei nomi delle reti (Rai movie, Rai gulp, Rai Premium, Rai News; Paramount, Real time, Discovey channel, Sky) e dei programmi (Voyager, Report, X-Factor e persino The Voice of Italy o Italia’s Got Talent). I giornali urlano gli anglicismi nei titoloni in primo piano, ed è così che poi l’inglese entra addirittura nel cuore delle istituzioni, nella politica, nella giurisprudenza, nel fisco... Il dizionario che ho messo in Rete è molto significativo, per la prima volta gli anglicismi più comuni e incipienti sono raccolti e soprattutto classificati per ambito.

Secondo lei, perché si utilizzano termini inglesi quando ci sarebbe l’italiano. Quale spiegazione si è dato? E’ moda? Fa più effetto? Sembra più professionale?

Un luogo comune vuole che l’inglese sia una lingua più sintetica. Indubbiamente è vero, ma non è questa la ragione del suo successo. Che senso avrebbe dire misunderstanding al posto di equivoco? Location per ambiente, nomination per nomina, leader per capo? È per risparmiare la “e” finale se diciamo competitor, mission e vision al posto di competitore, missione e visione? No. La verità è che ci piace il suono inglese, lo percepiamo più evocativo, più preciso, più moderno. In altre parole abbiamo un complesso di inferiorità verso l’angloamericano. Trend suona più scientifico di tendenza, tablet più preciso di tavoletta, anche se in inglese non è così. Siamo arrivati al punto di inventare suoni inglesi che non sono altro che pseudoanglicismi: no vax invece di anti vaxxer e poi pile, autostop, block notes, slip, beauty case... parole sconosciute in inglese. Così come il basket si dice basketball e lo smoking vive solo nei divieti di fumare, non è un abito da sera. Che altra spiegazione c’è per rendere conto di questi fenomeni? Non sono “prestiti”, sono reinvenzioni dal suono inglese ridicole come l’Alberto Sordi di Un americano a Roma. È la “strategia degli Etruschi”, che si sono sottomessi alla romanità, che evidentemente consideravano superiore, fino a scomparire e a esserne inglobati.

L’introduzione di questi anglicismi non è la diretta conseguenza di un mondo che è cambiato e che è sempre più globalizzato? Un mondo in cui l’inglese, in effetti, è la lingua più parlata per comunicare e capirsi...

L’aumento impazzito degli anglicismi è figlio della globalizzazione, non a caso l’impennata ha inizio negli anni Novanta. E poi c’è l’espansione delle multinazionali: parole come leasing o franchising, notava un grande giurista come Francesco Galgano, sono termini intoccabili perché non si deve compromettere l’uniformità del diritto internazionale con le traduzioni nel linguaggio dei singoli Stati. E così le multinazionali impongono il loro linguaggio dalla giurisprudenza alle catene di negozi (che ormai sono sempre più shop e store, come i fast food che servono cheesburger e hamburger che fino agli anni Settanta si chiamavano ancora svizzera o medaglione). Certo, si tratta di un fenomeno mondiale, ma all’estero non sono certo proni come noi davanti all’inglese. In Spagna gli anglicismi sono contenutissimi: lo sport si chiama deporte (dunque non è un internazionalismo obbligatorio), i jeans sono i vaqueros (eppure jeans deriva dall’italiano Genova, anglicismo di ritorno con il suono inglese che noi lasciamo intradotto), la baby sitter è un canguro e il computer è ordenador, computador o computadora. In Francia invece si chiama ordinateur, il software è logiciel e nella Costituzione c’è scritto che la lingua è il francese, per cui nessun politico potrebbe varare act o emanare tax.

Però, a volte, si ha la sensazione di un’estremizzazione per la difesa dell’italiano. Ad esempio termini come “baby sitter” o “airbag” sono totalmente entrati nei nostri lessici e traducibili con difficoltà o con termini obsoleti (penso a “bambinaia”). Non crede sia importante arrestare il fenomeno degli anglicismi evitando però il rischio di eccessi?

Chiariamo bene la questione: non sono un “purista” che storce il naso davanti alle parole straniere per principio, è solo un problema di numeri. La sproporzione dell’inglese è schiacciante, e non è affatto “necessaria”. Airbag non è stato tradotto, ma non è “intraducibile”, e infatti in francese si dice anche coussin gonflable, e in spagnolo bolsa de aire; il problema è che noi preferiamo ripetere quello che leggiamo sulle scatole dei prodotti che ci vendono invece di coniare nuove parole. Baby sitter si può dire perfettamente tata, attuale, in uso e più breve. L’obsolescenza di bambinaia non è la causa che ci porta a preferire i forestierismi, al contrario ne è l’effetto. Moltissime parole italiane diventano obsolete proprio perché smettiamo di usarle in favore dell’inglese. Per quanto tempo potremo ancora dire trucco invece di make-up e parrucchiere invece di hair stylist? Questi esempi io li chiamo “prestiti sterminatori”, perché uccidono le parole italiane che esistono: killer sta simbolicamente uccidendo pluriomicida o forse lo ha già ucciso, budget stanziamento/tetto di spesa, privacy privatezza, pusher spacciatore... Baby sitter è vero che è in uso da un secolo, ma non è una parola “innocente”, proprio sul suo modello adesso circolano senza alternative pet sitter, cat sitter o dog sitter.

E se invece parliamo di “tennis”, “meeting” e “tunnel”? Pure questa vanno tradotte?

Nessuno vuole censurare parole storiche come queste però bisogna fare attenzione agli anglicismi incipienti e porre dei limiti. Ognuno parla come vuole, sia chiaro, ma per poter esercitare una scelta, le alternative italiane devono esistere e circolare, e invece sempre più spesso regrediscono e non ci vengono più spontanee. Ecco il senso del mio dizionario: favorire la libertà di scelta linguistica, non censurare gli anglicismi.

Dal “prima gli italiani” di Salvini al “prima l’italiano di Zoppetti”... battute a parte, dietro si cela lo stesso intento di difendere il Paese?

Al contrario, e sono felice di frantumare questo luogo comune. Noi abbiamo un problema storico: l’unico esempio di politica linguistica, sbagliata, è stato quello del fascismo che ha tra le altre cose scatenato la guerra ai barbarismi. Per questo difendere la lingua italiana o ipotizzare una politica linguistica suona come una posizione conservatrice o di destra. Nulla di più falso. La questione, oggi, è difendere ciò che è locale davanti alla globalizzazione, un discorso che dovrebbe appartenere alla sinistra. Perché nessuno ha da ridire se difendiamo l’italianità della cultura, dell’arte, della gastronomia e delle nostre eccellenze, ma se si estende lo stesso discorso alla lingua si viene etichettati come puristi o fascisti? In Germania hanno lo stesso problema, dopo Hitler, e infatti il tedesco è un’altra tra le lingue più anglicizzate d’Europa. Spezziamo questa sciocchezza che l’unica politica linguistica possibile sia quella del passato. Guardiamo a quanto accade in Francia, in Spagna e persino in Svizzera: lì il question time del Parlamento si dice l’ora delle domande. Possibile che dobbiamo imparare l’italiano dagli svizzeri? La difesa della lingua non è né di destra né di sinistra, riguarda tutti noi in modo trasversale. Ogni parallelo tra gli stranieri e le parole straniere è un non senso. Con tutti gli immigrati che ospitiamo, cinesi, albanesi, africani, turchi, musulmani... chi conosce una sola parola di queste lingue? Fuori dalla gastronomia (kebab, wan ton, sushi, falafel) non c’è alcuna contaminazione e interferenza. Invece l’inglese non è presente sul territorio con le persone, ma ci avvolge con la sua forza economica e culturale, e questo imperialismo linguistico ci sta schiacciando.

Insomma lei è per la sovranità, almeno quella linguistica...

La nostra lingua è un bene comune, che rappresenta la nostra storia, le nostre radici, ciò che ci identifica e ci accomuna. L’italiano scritto ha secoli di tradizione letteraria, ma se consideriamo il parlato, non ha nemmeno un secolo, è perciò molto giovane e fragile. È nato con la radio e la televisione, perché sino agli anni Cinquanta si parlavano sostanzialmente i dialetti. Se la sovranità linguistica è la difesa del locale e della nostra tradizione davanti alla globalizzazione, sono sovranista. E invito tutti a studiare l’inglese, proprio per non mescolarlo né sovrapporlo in modo insensato alla nostra lingua, che stiamo depauperando senza esserne consapevoli.

* Da questo lavoro in Rete è tratto un piccolo dizionario cartaceo Etichettario, dizionario delle alternative italiane, Franco Cesati editore, previsto per ottobre.

(17 settembre 2018)

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