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Il Molise su la Repubblica con Marina Colonna e il suo Olio Evo di San Martino in Pensilis








L'olio "nobile" di Marina Colonna: "Così esporto il Molise di qualità"

Donne impresa 107. Discendente della storica famiglia romana, dopo una esperienza come documentarista e molti viaggi in tutto il mondo, guida un'azienda agricola nel comune di San Martino in Pensilis, nell’entroterra di Termoli
di PATRIZIA CAPUA




La sua second life è nella campagna molisana al confine con la Puglia, nei 160 ettari che in origine erano 2000, portati in dote nel 1840 da Giovanna Cattaneo di San Nicandro che andava sposa al principe Colonna di Roma. L’azienda agricola guidata da Marina Colonna è nella Masseria Bosco Pontoni, una dimora rurale nel comune di San Martino in Pensilis, nell’entroterra di Termoli e a ridosso di Ururi, un piccolo paese albanese di 2500 persone, nato dai boat people dell’Albania nel 1400. “Dopo cinque secoli ci tengono ancora molto a parlare il loro dialetto, l’albanese di una volta. Quando 15 anni fa arrivarono i primi connazionali, non è che si capissero molto tra di loro, sono chiusi ma è gente sana e per bene”.

L’imprenditrice nata a Roma il 13 marzo del 1949, è figlia di Francesco Colonna e di Doretta Cosulich, signora triestina dallo stile spartano e concreto, il cui padre Augusto costruì i cantieri navali di Monfalcone. E i Colonna sono uno storico casato zeppo di antenati che facevano scaramucce con i papi e di personaggi straordinari della statura di Vittoria, una moderna donna del Cinquecento, grande poetessa e musa di Michelangelo, sfuggita all’Inquisizione forse solo grazie al peso politico della sua famiglia.
“Sono molisana di adozione, mio padre è morto nel dicembre del 1983, io sono arrivata qui tre anni dopo. Coltivo grano, girasole, ceci, lenticchie, un ettaro di canapa. Tutto il resto è olivo, 55 ettari con 27 mila alberi secolari e un fatturato 2017 di un milione di euro. L’anno scorso è stata un’annata buonissima, con 400 quintali di olio dop, quest’anno sarà meno”. Lavora per lo più con l’estero, Marina Colonna, ha ordini dal Giappone, ma primo cliente in ordine di tempo e primo per fatturato è l’Inghilterra, seguono Germania, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda.


“Esporto il Molise di qualità. Guido un’azienda in cui mio padre ha messo l’anima.  Mi sono rimboccata le maniche e nella disgrazia ho avuto fortuna. Qui in provincia c’è un’invidia spaventosa: da una parte dicono guarda la Colonna, dall’altra masticano amaro. Ho incontrato persone positive che mi hanno aiutato. Il primo paese pugliese, oltre il confine regionale, è Serracapriola e lì c’è Carlo Maresca, ha un bel castello e molte terre, soprattutto seminativi e fra l’altro è anche agronomo, e mi ha fatto gratis da fattore. Facevamo i piani culturali, io con i seminativi non ci azzecco, capisco solo d’ulivo ma se una cosa ti piace impari presto”.
Seconda di quattro figli, studi pochi, il Liceo internazionale e la scuola interpreti, Marina Colonna se n’è andata via di casa presto, dal palazzo principesco davanti all’Ara Coeli, “perché soffocavo, cercavo di capire chi ero”.

Ha vissuto un lungo viaggio di formazione. A Londra nei primi anni Settanta, mentre impazzava l’italian design, e il ‘Sacco’ di Zanotta andava ruba da Harrod’s, lei trova un lavoro nel settore dell’arredamento. Il vento e la nebbia inglesi dopo tre anni la riportano a Roma e poi al Sud, in Africa, ad Asmara e Massaua, ospite di un’amica che viveva ancora con il padre nelle nostre ex colonie. Poi è la volta di Spoleto, al Festival dei Due mondi di Gian Carlo Menotti, Marina Colonna è ingaggiata per collaborare all’organizzazione, “il palco, le prove, i musicisti, Visconti sulla sedia a rotelle che dirigeva la Manon, il lavoro di Robert Wilson, ‘A lecter to Queen Victoria’: tutto bellissimo, ma era come vivere in un mondo separato che poi sparisce e rimani svuotato. L’ho fatto per due anni di seguito”.

Da Spoleto a Kabul, il viaggio continua in Oriente, “nella vita le cose ti arrivano, sono partita con un amico che andava a fare una vacanza, lui è tornato indietro, io sono rimasta finché sono durati i soldi; in due giorni di autobus sono arrivata nella regione indiana del Ladakh e ho avuto la fortuna straordinaria che quell’estate era appena stata aperta all’Occidente. Non vedevano una faccia occidentale dal 1948, mi guardavano come un’aliena. Leh, la capitale, era un paesino semplice, i ladachi sono stupendi, tutti insieme, buddisti e mussulmani, senza litigare mai, senza prigioni. Feci tante foto in bianco e nero con la macchina che mi aveva prestato mia sorella”.

Al rientro a Roma, aveva 25 anni, ne fa un documentario, “Il centro dei passi”, che poi è stato venduto alla Rai, ha avuto un’edizione inglese e distribuito anche negli Usa. Impara il mestiere di documentarista e di inchiestista con il regista triestino Pier Paolo Venier, galoppando come porta fonico, interprete e assistente al montaggio. Nel 1979 va a girare in Jugoslavia con Tonino Guerra, e dopo scrive con un amico un progetto sui ‘gattopardi’ siciliani alla Tomasi di Lampedusa. “Mamma mia che fatica durissima i siciliani, porte sprangate. Anche a me che avevo un nome importante, anzi peggio. Ma grazie alla mia ex compagna di scuola Vittoria Alliata, figlia di Francesco, che poi ha scritto dei libri, ho vinto la battaglia e ho trovato persone straordinarie”.

Sei mesi con un contratto da interna alla Rai, al Dipartimento scuola educazione, con un lavoro con Rosanna Pace, sindacalista della Cgil, sugli insegnanti, che suscita scalpore e becca una censura. Colonna, un nome pesante anche in Rai. “Pesante è la parola giusta, una fatica, ti senti sempre fuori posto. Mi ricordo un capo struttura che un giorno mi disse, avevo 30 anni: ma stattene a casa, sposati, chi te lo fa fare? Mio padre invece di darmi una carezza, si mette a lamentarsi sulla campagna, l’azienda non va, dai, occupatene tu. E lì è stato l’inizio. Sono contenta di averlo fatto, non rimpiango nulla, tutto sommato. Non lo so se mi sento imprenditrice, questo mestiere me lo sono inventato”.

La campagna non va in ferie e per questo la proprietaria dell’azienda in pieno agosto è ancora al lavoro. “Agli operai gli devi stare addosso, i fissi sono tre, ho un pensionato nostro che conosce la terra meglio di tutti e ora sta arando, e quattro o cinque africani che hanno bisogno di lavorare, un rumeno che vive qua con la sua ragazza e fanno un po’ da guardiani. Sta pulendo gli ulivi, taglia i polloni. Sono bravi questi ragazzi, tutti pagati come gli altri, non c’è serie A o serie B. Poi faremo la raccolta delle olive, con i pettini penumatici, più veloci e più delicati con la pianta, se vuoi fare la qualità, non uso scuotitori perché mi rovinano gli alberi. L’ultima generazione che prediligo sono i pettini francesi, Pellenc, l’operaio può andare da solo con la sua batteria in spalla. Ne ho prese sei, se ho i soldi ne compro altre”.

Nel 1990 nasce l’olio agrumato. “Mi ricordavo che da bambina papà aveva l’ampollina dell’olio limonato. Nel frattempo avevo cambiato il frantoio, da quello tradizionale a uno a ciclo continuo. Volevo provare. L’inglese importatore mi promise che avrebbe fatto l’ordine, facemmo l’olio agrumato”.

Il padre di suo figlio Eugenio, il regista Gianni Barcelloni, che non c’è più da due anni, con gli amici Giorgio Manganelli, Alberto Moravia e Giorgio Montefoschi organizzò una specie di concorso privato per trovare un nome che facesse pensare all’Italia ma facile per gli anglosassoni. Vinse Manganelli con ‘Gran verde’, poi con quel marchio sono nati tutti gli altri oli: arancio, mandarino, bergamotto, basilico. Se me lo chiedono, avendo l’orto, lo realizzo con lo zenzero, il cardamomo, piccoli quantitativi, mando i campioni, c’è sempre qualcuno poi che ordina”. Il miglior cliente dell’anforina di ‘Gran Verde’ è Waitrose, un supermercato inglese tipo Esselunga ma più grande.    

Eugenio, nato nel 1987, è autore di video, lavora come operatore, ha preso dal padre, adesso si è specializzato con il drone ma la sua passione travolgente è il surf. È quasi figlio unico perché ha una sorella più grande, architetta, che vive tra Venezia, Firenze e Losanna. “Fin da ragazzino è stato molto acquatico, prima la tavoletta poi la tavola, ha fatto surf alle Hawai, a Tahiti, a Bali, adesso c’è Nazaré in Portogallo, che pare abbia l’onda più strepitosa del pianeta. L’azienda agricola non gli interessa. Eppure qui ci ha vissuto più di me perché a Ururi ha fatto un anno di scuola”. 

La cosa più faticosa da gestire e snervante è l’organizzazione del business, la vendita dell’olio, i dipendenti, l’ufficio, l’imbottigliamento. Quella più difficile è guadagnarsi l’autorevolezza, per farsi ascoltare e per farsi rispettare, essere donna è molto pesante nel mondo agricolo. “Ho toccato con mano il pregiudizio nel mondo della produzione dell’olio, e penso anche del vino che però non seguo. Ma so per certo che noi donne ci teniamo alla terra e ce ne sono tante che hanno le aziende, io sono una storica di Confagricoltura, donne belle, forti, precise e determinate che fanno le cose come dio comanda. L’uomo è molto più chimico, so io le lotte che devo fare per non usare il glifosato, cioè l’erbicida secca tutto, ma qui per secoli l’hanno adoperato, butti veleno nel terreno mentre togliere l’erba costa. Di là è biologico, di qua, dove ci sono i seminativi, è lotta integrata. Il problema è mantenere queste aziende, ridurre i costi, fare reddito è complicato. Arriva un fulmine e ti spacca il quadro elettrico oppure devi rifare il pavimento del frantoio. Bisognerebbe smuovere i politici che all’agricoltura non pensano. Gli spagnoli, i francesi, tutto il mondo va avanti e l’Italia va indietro. La Spagna ha fatto dieci piani olivicoli a base di innovazione, l’America in California, la Napa Valley, sempre più protezionisti, adesso hanno messo le nostre qualità, concorrenziali nel tipo e nel prezzo, gli oli spagnolo e greco sono altrettanto buoni e costano la metà, in Sud America anche il Cile e il Messico. Il mio sogno è trovare qualcuno che faccia crescere questa mia azienda, il marchio è una perla, bisogna inventare un futuro”. 

La solitudine della vita in campagna. Con i locali pochi rapporti, “il posto è bello ma parecchio solitario, non è Lazio o Toscana dove ci sono gli amici. Qui ti conoscono tutti, ma non frequenti nessuno, ti considerano sempre la forestiera”. Invece ha familiarizzato con alcuni stranieri che si stanno attivando come operatori turistici: per esempio degli olandesi a Ripabottoni, Cristel che ha 27 stanze, la svedese Karin, una coppia di danesi che sta aprendo un bed&breakfast. “Anche io ho attrezzato un appartamento della masseria per ospitare turisti. Peter Farina, a Campobasso, con la sua ItalyMondo, a tutti quelli che hanno un bisavolo italiano e tanti ce n’è in America, dice venite in Italia per le vacanze, ma dovete stare in Molise almeno due settimane: gli trova alloggio mai in alberghi, sempre in case private, gli organizza le giornate e loro sono sempre entusiasti perché vanno alla scoperta di paesi sconosciuti”.

Per l’imprenditrice invece è vacanza andare a Roma, “prendo la macchina e in tre ore sono lì, mi riposo, mi tiro un po’ su, chiacchiero con un’amica, vado al cinema, qualche mostra, un concerto. I viaggi che mi piacciono molto li faccio per lavoro, Singapore, Guangzohu, Tirana in missione con la Regione Molise. Fino adesso viaggiavo per promuovere, in due giorni vedi buyers di sei paesi diversi, di fiere non ne posso più, ma tocca farne almeno due all’anno”. 
Tra i suoi libri in lettura ci sono William Darlymple, scozzese fantastico, e Traveling cat cronicle, cronache del gatto viaggiante, tutto scritto dalla parte del felino. Le fanno compagnia i concerti di Radio Tre, “radio che mi dà sollievo, ha sempre qualcosa che mi interessa”.

Ha frequentato solo nobili fino al ballo dei suoi 18 anni, che si è tenuto sulle terrazze del Palazzo Colonna, “c’è gente che ancora se lo ricorda. Ebbi in regalo una Fiat 500. Mia sorella non l’aveva potuto fare perché in quell’anno era morto il Papa. Non ho alcuna nostalgia di quell’epoca. Ogni cosa ha il suo tempo, poi uno cresce e vive altri mondi. Ho cambiato del tutto, per gli amici d’infanzia c’è simpatia e affetto che resta, ma non ho mai fatto vita mondana. Dico: non principessa, chiamatemi Marina”.

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