IL DIALETTO QUALE IDENTITA' E DIVERSITA'


Gianluca Venditti, Adele Terzano e Pasquale Di Lena
di Nicolino Civitella 

L’incontro del 24 gennaio u.s. nella sede dell’Afra in via Marconi a Larino 

La serata è tiepida: l’inverno ci ha fin  qui risparmiato le inclemenze di stagione. La sede dell’Afra, l’associazione culturale fondata da Gianluca Venditti in memoria della zia Antonella Franceschini, una professoressa di lettere scomparsa in età ancora giovane per via di quel morbo maligno che non  dà scampo, si trova in via Marconi, una traversa stretta e un po’ ricurva di via Cluenzio. È  composta da un unico ambiente molto raccolto, a pian terreno, un tempo forse parte principale, se non proprio esclusiva, di un’abitazione, dove a sera  la famiglia si raccoglieva, dopo le fatiche del giorno, alla fioca luce di una lampadina. Su due intere pareti una libreria che accoglie, in bell’ordine, tutta la biblioteca della defunta Antonella.  L’idea che ho in animo, dice Gianluca guadando i libri, è quella di favorirne la fruizione non attraverso prestiti, ma organizzando delle serate di lettura.

Intanto sta  realizzando degli appuntamenti settimanali, di giovedì,  su tematiche  di vario genere.

Questa sera sono  materia di intrattenimento poesie e racconti dialettali. Gianluca fa gli onori di casa ed apre la serata che vede protagonisti il poeta  Pasquale di Lena e la professoressa  Adele Terzano, di Guglionesi, una brillante ed effervescente dicitrice che ama esibirsi, e lo fa con rara efficacia, tra la cerchia degli amici: una teatrante, dice lei di se stessa, e  questo suo talento qui a Larino è noto ad una platea di amici abbastanza ampia, poiché Adele ha insegnato per diversi anni la lingua francese nella locale scuola media.

L’appuntamento era per le 18 e alle 18.15 la saletta è già piena. È  Adele a dare il via alle letture, proponendo subito alcune poesie che Vincenzo Lorito, poeta e narratore vernacolare  di Guglionesi ma residente in Canada, ha dedicato al proprio paese natale. Le recita con trasporto, Adele, queste poesie che lei dice di amare profondamente perché grondano amore e sentimento nostalgico per  il paese natale, ma anche per il dialetto,  perché, aggiunge,  la lingua dialettale rappresenta l’indice che più di ogni altro esprime il profondo legame che stringe una persona  alla terra di origine: alla sua cultura, ai suoi valori, ai suoi paesaggi, ai suoi gusti, ai suoi sapori, ai suoi profumi, al suo respiro, e ciò è a maggior ragione evidente in coloro che vivendo da anni lontano, custodiscono quel mondo dentro di sé e lo proiettano, ogni qual volta lo evocano, in una dimensione di mito.

Si alternano nella recitazione Adele e Pasquale. 


Pasquale, il poeta della terra, come è stato definito,  vive qui a Larino, nella “ Casa del  vento”, un’abitazione che sorge solitaria sulla sommità del Monte da dove la vista può spaziare liberamente dalla Maiella all’Adriatico e fino al Gargano e al Tavoliere delle Puglie.  Dopo un lungo periodo di permanenza in Toscana, dove è arrivato a ricoprire il prestigioso ruolo di segretario generale dell’Ente Mostra Nazionale di Vini -Enoteca Italiana di Siena, Pasquale è tornato a vivere qui, nella sua terra d’origine con la quale ha stretto un romantico legame d’amore, un legame che lo spinge ad elogiarne e difendere con profonda passione il tratto che  maggiormente la connota, quello della ruralità. La ruralità, in tutti i suoi aspetti, si fa oggetto del suo canto poetico e rappresenta per lui l’unico orizzonte entro il quale è possibile trovare  per l’uomo prospettive salvifiche. Un atteggiamento generoso che talora, tuttavia, sembra sfuggire alle ragioni del calcolo che di necessità sono sottese ai processi produttivi .

Esordisce, Pasquale, con la lettura di Ije mò songhe melesane. Il Molise, terra di passaggio per le greggi transumanti che in autunno scendevano attraverso gli erbosi  tratturi dall’Abbruzzo in Puglia per riguadagnare i pascoli montani a primavera, e il molisano quello che aspettava proprio queste due stagioni /a premàvére e l’auetunne,/prime de resaletà /che na s’trétte de mane/tutte chille che pàssene e vènne/da lentane./   Il Molise ha conquistato la sua autonomia costituzionale cinquant’anni or sono.  Il poeta ne va fiero e  respinge ogni proposito  di smantellamento di tale conquista: son passati cinquant’anni …e mó/ me vènn’e dice ca sème/ cuille ch’ejavame na vóte./Eh no! Ne è cuescì/Ije sònghe cóm’é cuélla róte/ch’èggire sule pe ì énnànze/ maie pe ternà erréte/ (…)Ije mó sònghe melesàne/é nze descùte./

E poi via con “A fèste”:  la festa di S. Pardo che è n’addòre,/nu suone, na voce,/ nu llucche de vóve,/ mille chelure,/nu pàlpate de córe./ ; “U vine : in un bicchiere di vino, rosso o bianco che sia, c’è il sapore della terra, il colore del sole, la fatica del cafone; e poi ancora “U paèse di uelive”;U maluócchie” (Il malocchio); “U hie‘hhiafuóche” (il soffietto del focolare): evocazioni del vecchio mondo contadino.  E poi:  Nge scta d’avé paure”  (non c’è da aver paura) : avrei tante cose da dire ai giovani, ma sento che un filo millenario si è spezzato e il mondo si è rovesciato “do’ i fije mparene e i padre” (dove sono i figli a insegnare ai padri). Ma non c’è da aver paura  s’erréte u spiguele /a campagne è verde/e chiene de ‘hiure./ (se dietro l’angolo la campagna è verde e piena di fiori.)

Torna Adele con Presangela, una canzone della tradizione popolare locale che lei canta in un tono sommesso sospeso tra recitativo e canoro. In essa  Presangela rivolgendosi al marito Domenico emigrato in America, evoca le lotte notturne che consumavano sotto le lenzuola domestiche prima che lui emigrasse, e lo ammonisce da lontano a non cedere agli sguardi ammaliatori delle donne mericane: “la sera dopo il lavoro, mi raccomando, dritto a casa, e rasente i muri!” Una canzone ricca di umore e tutta giocata su ammiccamenti di natura sensuale.

 Segue la lettura di un racconto autobiografico  di Lorito, un racconto che si connota per una rapidità di azione e una leggerezza narrativa degna dei migliori scrittori.

Dunque, l’autore, ancora in età giovanile, è protagonista di un’avventura rocambolesca che ha momenti esilaranti. Si fa accompagnare in moto da un amico nel  vicino paese di origine albanese per incrociare gli sguardi dell’innamorata. I tre fratelli di lei,  avvertiti della sua presenza, subito lo cercano e lo inseguono. Lui scappa in direzione del cimitero dove l’amico, come d’intesa, doveva attenderlo per una eventuale fuga. Ma l’amico appena lo vede arrivare inseguito dai tre, di cui uno armato di fucile, fugge via in moto da solo. Abbandonato dall’amico, scavalca il cancello del cimitero e si rifugia in un loculo vuoto, raggiunto, scavalca il muro di cinta e scappa verso un boschetto con i tre alle calcagna. Il tempo intanto si era fatto piovigginoso.  Trova rifugio su un albero. Gli inseguitori lo perdono di vista e si fermano proprio sotto quell’albero. Confabulano. Ad un certo punto quello armato di fucile dice: visto che non gli ho potuto sparare una schioppettata a quell’italiano, ora per sfogo la sparo in alto: boom,  e la schioppettata colpisce di striscio il fuggiasco. I tre vanno via e lui nella notte se ne torna arrancando mani e piedi a casa.

Infine la recitazione del Cònsolo, un racconto scritto da Giuseppe De Socio, poeta e scrittore anche lui di Guglionesi, e qui la platea dei presenti è trascinata in un crescendo di risate.  Il  “Cònsolo”  è la cesta  ricolma di vivande che nei tempi andati i parenti, ma anche  i vicini,  portavano a casa dei familiari di un defunto per consolarli del lutto.

In questo caso una donna cui è venuto a mancare il marito, riceve il “Cònsolo” dalla vicina nello stesso giorno del funerale. La nostra Adele si compenetra pienamente nelle due parti: della vedova e della vicina. “Su, prendi un boccone, ne hai bisogno, ti rinfrancherai”, sollecita la vicina. “No, no- risponde l’altra, mostrando un viso profondamente affranto-  non mi va niente, il dolore mi ha chiuso lo stomaco”, e, coprendosi il volto con ambo le mani,  riprende i lamenti con modulazioni  di voce che prima  si impennano e poi si affievoliscono fino a dileguarsi in un profondo e temporaneo silenzio  di afflizione, ma le lamentazioni  tradiscono un pizzico di malizia che sembra celare risvolti inattesi e per ora assolutamente imprevedibili, di riflesso le esternazioni acquisiscono una lieve e  involontaria sfumatura caricaturale che solletica lo spirito ilare. I dinieghi addolorati della vedova e le insistenze della vicina profferite con voce dolce e persuasiva animano per un bel po’ la scena, fino a quando le resistenze mostrano una prima incrinatura : “Solo un boccone, giusto per  farti contenta”. Ma al primo boccone ne segue un altro e poi un altro ancora finché il movimento della forchetta dal piatto alla bocca si fa regolare, e non disdegna la vedova un goccio di vino e poi un altro goccio e poi il bicchiere intero, e le afflizioni sembrano  via via svanire . Quando le vivande si esaurisco e la bottiglia del vino ha visto il fondo, i pensieri e la lingua della vedova si sciolgono: “Vuoi sapere? La verità è che mi sento finalmente libera, ah! -  e allarga braccia e respiro - finalmente libera!” un pensiero che premeva, come magma terrestre, sotto il tappo della convenzione sociale che fa obbligo in queste circostanze di esternare sentimenti di dolore. Il tappo è saltato e la lava vulcanica è esplosa fuori tra il fragore delle risate e degli applausi di tutto l’uditorio.

Pasquale chiude la serata leggendo prima A vergennelle, ispirata a  un casuale incontro d’amore   che si consuma dietro una siepe, e poi, U penziere, la  poesia che dà il titolo alla raccolta  pubblicata nel 1989, U penziere che ne vu penzà/ è na mósche/ che te fa sccattà/ Ti gira la mosca attorno e ti si posa sulla fronte e più la scacci e più torna a tormentarti.

Una serata gradevole, ricca di  emozioni e di calore umano. Nel momento del commiato il presidente dell’Associazione Gianluca ha voluto brindare alla buona riuscita della serata stappando due generose  bottiglie  di spumante.

Nicolino Civitella

 

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